Il primo uomo di Gianni Amelio

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Questa sera su Rai Storia (canale 54) alle 21:10 Il primo uomo di Gianni Amelio, film tratto dal romanzo autobiografico e postumo (venne pubblicato nel 1994) di Albert Camus. Su Cineforum 514 gli dedicammo la copertina e uno speciale con due articoli di Tullio Masoni e Anton Giulio Mancino. Pubblichiamo alcuni estratti del secondo dei due.


Albert, Gillo, Luchino: i fantasmi di un “padre ragazzo”

Quando si dice che Il primo uomo è un film autobiografico, di Gianni Amelio, basato sull’omonimo romanzo autobiografico di Albert Camus, occorre intendersi. Per quanto assurdo o paradossale possa sembrare, non significa che Amelio si sia semplicemente servito di questo testo per potersi raccontare in prima persona, con tutto ciò che in un autore la soggettività comporta sul piano storico, sociale e antropologico.

Amelio secondo Camus

Amelio, prima ancora di farci un film, di immaginarne anche solo la possibilità, ne ha strategicamente interiorizzato le dinamiche costruendosi addosso una parvenza autobiografica credibile. Simulando una perfetta e meditata trasparenza del sé, che i suoi stessi film da sempre lasciano intendere reclamando percorsi interpretativi in tal senso, è riuscito ad aggirare o fugare meglio la forte istanza o ingerenza conoscitiva che dall’esterno sembra minacciare la propria sorgente creativa. Con Camus i suoi presunti fantasmi del passato, familiare e storico, hanno trovato una precisa sistemazione autobiografica. A partire dall’autobiografia romanzata, appena dissimulata, incompiuta dello scrittore francese il regista italiano ha elaborato un solido passato di copertura: uno schermo dietro il quale trovare risposo, riparo e sicurezza. La successiva trasformazione di tale schermo protettivo offerto da Camus in schermo cinematografico ha consentito semmai il raddoppiamento del dispositivo memoriale indiretto. [...]

Il primo “primo uomo”

[...] Dal canto suo il film puntualmente, nella prima scena, sembra recepire l’effetto sorpresa che scuote la coscienza di Jacques rispetto a quel “padre ragazzo” verso il quale non riesce più a mostrarsi indifferente, scostante, distratto. Non è un caso che Amelio abbia deciso di cominciare il suo Il primo uomo pressoché là dove comincia l’originale di Camus. Ma la fedeltà nella trasposizione cela un ben più profondo debito dell’autore cinematografico nei confronti di quello letterario. Un debito contratto – come si è detto – nel 1994, quando cioè Amelio, a stretto giro dalla pubblicazione italiana del libro, descrive in una lunga intervista il rapporto con i genitori e in particolare con il padre adottando, anzi riadattando il paradosso temporale descritto e analizzato da Camus.

Il secondo “primo uomo”

Come il maldestro Antoine Doinel di I quattrocento colpi (Les 400 coups, 1959) di François Truffaut che desume letteralmente da Honoré de Balzac l’episodio della morte di suo nonno per il compito in classe di francese anche Gianni Amelio in un certo senso “ruba” ad Albert Camus lo schema del ricordo paterno: «Io ho avuto», racconta «sul piano personale, su un piano molto privato, uno shock da adulto, quando, avendo di gran lunga superato l’età in cui mio padre mi ha generato, ho valutato che età avevano i miei genitori quando io li vedevo adulti. Per esempio un giorno ho pensato a mia madre morta e ho realizzato che avevo dieci anni più di lei quando è morta. Mio padre mi ha generato che aveva diciassette anni (e mia madre ne aveva quindici), e quando è partito per l’Argentina non aveva ancora ventun anni. […] Improvvisamente, quando è morto davvero, non l’ho visto più come mio padre, l’ho visto come un essere che a undici anni è stato lasciato da suo padre, a diciassette ha avuto un figlio, a diciotto ha avuto una figlia, a ventuno è partito per cercare suo padre».

Come si può constatare lo “shock” di Amelio coincide con «quella strana vertigin» descritta da Camus «che lo aveva colto in quel momento, quella statua che ogni uomo finisce per erigere e indurire al fuoco degli anni, insinuandosi in essa per attendervi lo sgretolamento finale, si stava screpolando in fretta, stava già per andare in pezzi». Ragion per cui, retrospettivamente, con il senno di poi – che è poi quello di Camus, senza citarlo esplicitamente per non svelare il curioso gioco mitobiografico – l’autore di Il ladro di bambini (1992) e Lamerica (1994) conclude così quella che chiama «la quadratura del circolo della mia esistenza: se ho un problema come uomo, come individuo in rapporto ai miei genitori è il fatto che oggi li sento giovani, li vedo giovani, non posso avere un’immagine di mia madre, né di mio padre, quando ho visto mio padre adulto ero adulto io, e mia madre non è mai stata adulta perché era sempre bambina. [...]

Insomma, chi è che parla, Amelio o Camus, magari per bocca di Amelio? In questo montaggio incrociato senza soluzioni di continuità la palla passa a Camus [...].

L’Algeria dei padri rinnegati

Ma anche con l’altrui riscoperta del padre, di alter ego in alter ego, occorre intendersi: «Nel momento in cui», racconta sempre il regista «ho provato questo struggimento per la giovinezza estrema di mio padre, l’ho assolto di tutti i suoi possibili peccati. Ricordo che mi dicevo: il giorno che mio padre muore continuerò a fare tranquillamente le mie cose perché la sua scomparsa fisica non mi interesserà più di tanto». Da parte di Amelio questo bisogno di convivenza con l’immagine presente/assente o con figure di riferimento a monte che assumono valenza paterna non potevano che essere mutuate da Camus. [...]

Amelio chiama in causa in maniera persino esplicita, cercando però una prospettiva e una posizione diversa, critica, sconcertata, l’esigua filmografia di Pontecorvo che principalmente ruota attorno a La battaglia di Algeri (1966), attraverso cui dall’Italia, su commissione della Casbah Film, viene rievocata/celebrata a posteriori la lotta armata per l’indipendenza dell’Algeria come prototipo del cinema politico internazionale di impianto marxista, in cui non si pone il problema del rapporto tra violenza e nonviolenza ma tra contrapposte istanze violente legittimate da una sorta di religione laica e dialettica della Storia. E chiama in causa l’atto parzialmente mancato, uno dei tanti atti mancati della filmografia e della teatrografia emblematiche e spesso sommerse di Visconti il quale nel suo quasi rimosso Lo straniero (1967), non a caso prima pretestuoso poi troppo fedele all’omonimo romanzo di Camus, «progettava di prendere spunto dal testo per allargare l’argomentazione dell’Algeria coloniale del 1938-’39, a una sorta di previsione dell’OAS e della guerra d’indipendenza algerina: trapiantare l’immagine dell’arabo del libro nell’immagine di un’Algeria oppressa che forse un giorno si ribellerà».

[…] Fantasmi paterni, atti, progetti e film mancati, opere incompiute come testi e pretesti per una storia del cinema italiano che torna sui suoi passi in cerca, da un altrove all’altro, di occasioni aperte di riflessione e riscoperta, riscrittura e riscatto.