Il silenzio degli innocenti

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Questa sera su TV8 (canale HD 508) alle 21:25 Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme, tratto dall'omonimo romanzo di Thomas Harris e vincitore di cinque premi Oscar nel 1992 (miglior film, miglior regia, miglior attore protagonista, migliore attrice protagonista e miglior sceneggiatura). Su Cineforum 304 gli dedicammo uno speciale con due pezzi: uno di Gualtiero De Marinis e il secondo (quello di cui pubblichiamo alcuni estratti) di Emanuela Martini.


Gli unici eroi possibili

[...]

Penetrante, attento e dotato di una sensibilità e di un sense of humour del tutto sconosciuti ai suoi carcerieri, Hannibal Lecter sa riconoscere e rispettare la purezza della ricerca altrui. Se il rapporto che esisteva tra il dottor Lecter e l'agente federale Will Graham in Manhunter (il film diretto da Michael Mann e tratto dal romanzo precedente di Thomas Harris, Red Dragon) era di somiglianza, quello che si instaura nel Silenzio degli innocenti tra lo psichiatra e l'allieva della scuola federale mandata da lui nel tentativo disperato di farlo parlare del nuovo serial killer che sembra ispirarsi alle sue gesta si avvicina molto a un rapporto d'amore. Certamente Clarice, «trattata» da Lecter, risolve, oltre che il caso, parte dei suoi traumi. Lecter, senza tradirla, riesce a usare la caccia al nuovo maniaco per evadere; e si dimostra, nei confronti della ragazza, infinitamente più onesto di quanto non sia il suo superiore, uno Scott Glenn tutto freddezza e calcolo, scritturato (come Anthony Hopkins per la parte del dottor Lecter) in un ruolo atipico. [...]

Quanto a Jodie Foster, con la sua goffaggine contadina appena rieducata, la sua tenacia e la sua disperazione solitarie, riesce a tener testa alla malignità sottile e inquisitiva di Hopkins, trasmettendo a labbra strette la rabbia per le molte umiliazioni e la propria sofferenza remota per, appunto, «il silenzio degli innocenti». In questo senso, ha ragione Amy Taubin, che in «Sight and Sound» scrive che “Il silenzio degli innocenti sta al thriller psicologico come i racconti di «The Bloody Chamber» di Angela Carter stanno a fiabe gotiche quali «Cappuccetto Rosso» e «Barbablù». Prende una narrazione familiare e ne rimette in circolo il materiale sessuale. È uno slasher nel quale la donna è l'eroe invece che la vittima, l'inseguitore piuttosto che la preda (…). Per quanto fedele alla trama e agli episodi del romanzo di Harris, Demme ne altera il tono e il significato. Rende Clarice ancora più centrale (e più isolata) di quanto non fosse nel romanzo, un fatto che i mass media, infatuati di Hannibal the Cannibal, hanno quasi completamente ignorato». La constatazione di Amy Taubin è assolutamente puntuale: Clarice è davvero la protagonista di Il silenzio degli innocenti (come lo erano state Audrey e Angela di, rispettivamente, Qualcosa di travolgente e Una vedova allegra... ma non troppo), capace di imporsi sull'intreccio modificandone i risvolti prevedibili e, persino, di smuovere l'inalterabile autocontrollo del dottor Lecter fino a trasformarlo in un imprevedibile maestro/alleato. Il rapporto che si intreccia tra i due, dove Lecter sottopone Clarice a vere e proprie sedute e dove la ragazza offre al dottore una controparte attiva della sua intelligenza (costretta a confrontarsi solo con la rozzezza stolida di carcerati e guardiani), è tratteggiato da Demme con un'intensità e una finezza cinematografiche rare. Non solo le parole (le tracce enigmatiche con cui Lecter sfida l'abilità e la sensibilità di Clarice), ma soprattutto la tensione che i due attori imprimono ai loro lineamenti e ai loro corpi , gli sguardi che si evitano, si analizzano e finalmente scoprono con sorpresa la complicità dell'avversario, la macchina da presa che, andando da uno all'altra, costruisce un sottotono la rete di ambiguità, perversioni, dubbi sulla quale poggia il malessere profondo del film.

Il silenzio degli innocenti ha un'inquietudine sotterranea e spiazzante, di quelle che resistono anche a film concluso, vengono a casa con noi e, magari, agitano i nostri incubi. La paura non si trasmette tanto attraverso le sequenze propriamente thrilling [...], quanto attraverso i rapporti abbozzati, le analogie intuite, i ricordi riemergenti, le affinità mostruose. Gli occhi di Clarice e Lecter, nei campi/controcampi dei loro colloqui, sono pericolosamente vicini dal guardare in macchina, cioè dal guardare direttamente nei nostri occhi, dal coinvolgerci come parti in causa. [...] E ovvio che Demme lavori magnificamente su queste psicologie al confine e sui loro alter ego, sui poliziotti che risolvono i casi perché capaci di mettersi in sintonia, contro ogni tegola del buon senso e dell'autoconservazione, con le menti che ormai hanno superato ogni limite. Tutto il suo cinema è costruito sulle esplosioni dell'inconscio, sul cambiamento repentino con il quale un personaggio si trova improvvisamente a fare i conti; […].

Diventa ovvia perciò anche l'attenzione riservata da tutti a Hannibal Lecter. Non si tratta solo di un pezzo di bravura stupefacente di Anthony Hopkins, o della solita attrazione catartica per il personaggio violento. Il fatto è che il dottor Lecter, analizzando Clarice, gli altri maniaci e i poliziotti, analizza anche noi, i nostri silenzi, i nostri compromessi, la rabbia che abbiamo in corpo, ma che, civilmente o opportunisticamente, non sfoghiamo. Lecter, Lilly Dillon, lo straripante e indistruttibile Albert Finney di Il crocevia della morte e la furibonda Kathy Bates di Misery non sono proiezioni liberatorie (non sono Norman Bates di Psyco), ma gli unici eroi possibili di una civiltà feroce e silenziosa, dove «passare il limite» rischia di essere l'unica maniera di rivendicare la propria libertà morale.