Inception di Christopher Nolan

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Questa sera su Iris alle 21:00 Inception di Christopher Nolan. Un grande film sulla contemporaneità e sul rapporto fra noi e le immagini. Qui sotto la recensione di Luca Malavasi dal ricco speciale che dedicammo al film sul nº 498 della rivista ai tempi dell'uscita in sala. (Tutti i pezzi dello speciale e gli altri contenuti sono disponibili in forma cartacea e in pdf)


Da dove hanno origine, a cosa servono e cosa fanno le immagini? Come entrano nella realtà, e quanto possono incidervi? Mascherato da film onirico, con tanti ascensori in su e in giù tra la veglia e il sonno, Inception è soprattutto un film (filosoficamente aggiornatissimo) sui desideri e sulle paure che alimentano le immagini – tutti i tipi di immagine – e che governano il nostro rapporto (di bisogno) con le immagini – un bisogno antropologico e forse prima ancora biologico di arredare il mondo – tutti i tipi di mondo – di immagini. E parlando di bisogno e necessità, paura e desiderio smettono di essere condizioni diverse e lontane. La necessità (di immagini) somiglia a una spinta irrefrenabile: il piacere, dunque, è l’altra faccia di una pericolosità certificata dal bisogno stesso. Inception è la storia di questa storia. Che è, al tempo stesso, antichissima – quanto l’uomo – e perennemente nuova, rinnovata dalla vita, dalla morte e dalla risurrezione continua dell’immagine. È, anzi, due storie, o due sponde di questa storia: da un lato, una storia d’amore e desiderio mediata dall’immagine, e anzi ormai sublimata in un rapporto ossessivo con l’immagine; dall’altro lato, è una storia di violenza e inseminazione artificiale, in cui l’immagine è un’arma maneggiata consapevolmente, un oggetto destinato a cambiare il destino dell’uomo.

La prima storia non è dunque l’avventura spionistica di Dominic “Dom” Cobb, che entra e esce dai sogni altrui per rubare e seminare, raccogliere e trapiantare – lynchianamente consapevole che ci sono strati e livelli, ma mai inizi e fini. No, la prima e la più bella storia di Inception – quella che lo scalda e trasforma nel miglior mélo degli ultimi anni, tanti anni – è la relazione d’immagini tra Dom e la moglie Mal, la persistenza dell’immagine della seconda nella vita del primo. Mal è la donna del ritratto di LangMatrix (id., 1999) non c’entra niente, il noir sì e tanto – e il ritratto è la donna, senza soluzione di continuità. Perché qui, a differenza di Memento (id., 2000), la questione non è la linea(rità) del tempo ma la consistenza dei corpi; e qui, a differenza di The Prestige (id., 2006), l’ambiguità non è quella di due che sembrano uno, ma quella di un corpo che distilla un’infinità di immagini dotate del potere – di agire e di essere – di un corpo, e della volontà di una donna di cui si è ancora innamorati.

Dom ama e ha paura, scappa da Mal e però, segretamente, fa il lavoro che fa perché lì, appena chiude gli occhi, sa che Mal comparirà. Il desiderio passa attraverso l’immagine, paura e desiderio, amore e desiderio; il confronto è doloroso, l’attrazione inevitabile. Perché Nolan – che con Inception, tra le altre cose, consegna il primo film che chiude i conti col decennio americano governato dalla crisi iconica scaturita dall’11 settembre – non parla semplicemente di simulacri e doppi, di corpi che si disfano e di immagini che si incarnano; non parla semplicemente di sogni che diventano realtà e viceversa. Nolan fa un passo avanti, e aprendo, fino al punto di romperli, i margini del noir – margini anche morali – racconta di un nuovo mondo di immagini e, soprattutto, del lavoro delle immagini sul e nel mondo, delle loro conseguenze, del loro impiantarsi, moltiplicarsi, diffondersi, animarsi.

Nolan non gioca, né si diverte. La “struttura” – che è la cosa per certi versi più indifferente del film, e non interessa a nessuno se i conti tornano oppure no, se tutto funziona oppure no – è l’immagine piramidale e al tempo stesso fluida, priva di contorni e confini, di una disseminazione infinita dell’immagine. Non, però, nel senso dell’ampiezza – di questo si sa già tutto, e dell’“orizzontalità” invasiva della rete si è già detto e scritto fin troppo. Nolan, al contrario, racconta l’immagine attraverso la metafora del crollo e dello sprofondamento – ed è qui, su un piano prettamente figurativo, e quindi sostanziale, che Inception finisce per incrociare il dibattito attorno alla correità iconica dei media nella tragedia dell’11 settembre. Inception parla di immagini che cadono e penetrano, di immagini che scivolano negli interstizi di costruzioni solide come la realtà, trasformandola radicalmente ma insensibilmente. Detonazioni distruttive e al tempo stesso, almeno all’apparenza, invisibili. Ma Nolan sa bene che la vita dell’immagine, il suo perenne e istantaneo apparire e sparire, non coincide mai davvero con la sua effettiva presenza; e, dunque, con il suo lavoro, che è lento, profondo, nascosto.

La narrazione stessa di Inception parla di questo lavoro, e descrive il tragitto virale dell’immagine contemporanea, indicando perfettamente un’azione del visivo ormai sottratta al controllo razionale e alla speculazione, perché collocata in un territorio fuori controllo, onirico solo nella forma (è, per l’appunto, il territorio di un’ellissi, di una distrazione umana, di un’ingenua valutazione dei modi di presenza e di azione dell’immagine). E il “saggio”, infine, parla anche di responsabilità. E lo fa – continuando un discorso in linea con le logiche morali del noir – rimandando tutto alla vittima, da cui è tolta ogni possibilità di salvezza.

Proprio nell’intreccio di paura e desiderio, ossia nel racconto di due modi apparentemente diversi di essere con le immagini (per tenere in vita l’amore e il passato, e per terremotare il presente e il futuro), Nolan suggerisce un’ambiguità originaria, una necessità dell’immagine che, appunto, oscilla continuamente tra dannazione e godimento, tra un bisogno affettivo di presenze vicarie e un rifiuto della persistenza visiva del passato. Nolan lavora insomma come un sub in discesa libera, via via sempre più appesantito e al limite soffocato dalla pressione di quello che, nella discesa, resta sopra; Inception è un film pieno di memorie, pieno delle vite lunghe delle immagini, del loro tempo non umano, del loro peso variabile (fino all’assenza di gravità), del loro spessore non calcolabile, dei loro confini mai chiaramente tracciati. Vite che impongono continue discese e risalite – e non semplici movimenti di avanti e indietro. Ma è sprofondando in queste vite che l’uomo, da sempre, fa i conti con la realtà.