Inside Man di Spike Lee

focus top image

Questa sera su Rete 4 alle 21:15 Inside Man di Spike Lee, thriller del 2006 e uno dei maggiori successi del regista, con protagonisti Denzel Washington, Clive Owen, Jodie Foster, Christopher Plummer e Willem Dafoe. Pubblichiamo alcuni estratti della scheda che Roberto Chiesi scrisse per Cineforum 454.


I fantasmi della Storia

[…] Chi si attendeva un mero prodotto su commissione, è stato smentito: Lee ha realizzato uno dei suoi film più originali e taglienti sulle colpe ataviche della buona società statunitense, un congegno narrativo che funziona anche nei suoi ingranaggi più contraddittori e inverosimili.

Un labirinto di finzioni

Il presente continuo dell’azione di Inside Man è un tempo illusorio. Il primo piano di Dalton Russell che interpella lo spettatore per raccontargli la sua storia, arriva da una prospettiva temporale distante dalla dimensione in cui si sono svolti gli eventi. [...]

Nei film di rapina, la banca è uno spazio da violare, svuotare e abbandonare precipitosamente. Quando i banditi si asserragliano al suo interno, hanno già perduto la partita e ormai importa vedere solo quando e in quale maniera la perderanno (si pensi a Quel pomeriggio di un giorno da cani di Lumet, esplicitamente citato nel film). In Inside Man, invece, i criminali assaltano la banca per rinchiudervisi dentro e fin dall’inizio scoprono deliberatamente la propria presenza ad un poliziotto. La loro strategia agisce quindi all’inverso della norma: catturano un cospicuo numero di ostaggi (cinquanta), per impadronirsi del tempo necessario a stanziarsi indisturbati nella banca, dove li vediamo intenti a cercare e poi ad aprire una determinata cassetta di sicurezza, ossia un compromettente reperto del passato dello stesso proprietario della banca, Arthur Case.

Instaurano, quindi, una doppia finzione: una recita con le forze dell’ordine cui chiedono un veicolo per la fuga (simulando, quindi, l’intenzione di scappare nel modo più ovvio) e una messinscena interna con gli ostaggi, che vengono costretti a indossare le loro medesime divise e sono singolarmente trasferiti, a turno, da un locale all’altro. [...] Questa geniale operazione di mimetismo camaleontico è introdotta dal rito in cui Russell, il capo, si fa consegnare dai cinquanta ostaggi, riuniti nella sala principale della banca e divisi fra maschi e femmine, tutti i telefonini cellulari, non soltanto l’oggetto che potrebbe metterli in comunicazione con l’esterno, ma anche il feticcio che racchiude il loro privato, il loro status, il loro tempo [...].

[...] Il mistero di ciò che sta avvenendo in quello spazio invaso, in quella dimensione sovvertita, è una spietata verifica della vulnerabilità e della corruzione delle forze della società Usa, schierate a difesa in assedio (un clima che non può non evocare, in scala ridotta, quello degli Stati Uniti dopo il trauma dell’11 settembre). [...] Con malizia, Lee scopre progressivamente l’inadeguatezza di polizia e detective, mentre emerge la statura di quelli che sono i veri eroi morali e materiali di Inside Man: Russell e la sua eterogenea squadra di sovversivi e “diversi”.

Travestimenti e fantasmi

Per ingannare le forze dell’ordine asserragliate all’esterno, la banda adotta alcuni elementi ritardanti, quasi gag illusionistiche, come l’utilizzo (per coprire le loro voci) di un discorso registrato di Enver Hodja, spietato leader del governo comunista del Fronte popolare in Albania, che sterminò nazifascisti e avversari politici con la stessa ferocia. I detective rimangono interdetti, non riescono a capire di quale lingua si possa trattare, finché un operaio li avverte che è albanese. [...]

Lo stesso travestimento scelto da Russell e dai suoi, sembra rimandare alle fisionomie di note maschere di terroristi. L’effetto più micidiale della loro messinscena consiste, ancor più che nel disorientare la polizia statunitense, nel farne emergere spietatamente la brutalità, il razzismo, la xenofobia. Dato che la polizia non riesce a distinguere le differenze fra un ostaggio e un delinquente, assale e percuote indiscriminatamente chiunque fuoriesca dalla banca. Quando i rapitori lasciano libero un impiegato della banca, un indiano sik, all’inizio del sequestro, la polizia gli si avventa contro, scambiandolo per un arabo. La loro fobia dell’“integralista islamico”, unita alla proverbiale, ottusa ignoranza dei miliziani, li spinge a violare brutalmente la sua dignità e cultura, picchiandolo e strappandogli il turbante dal capo. [...] La genialità della messa in scena dei “criminali” si rivela anche nell’effetto a catena di dissoluzione retrospettiva di ogni azione criminosa: si scopre che l’assassinio dell’ostaggio era solo una sofisticata messinscena, che non è stata toccata nessuna banconota, che i fucili erano dei giocattoli.

Attori e segreti

Inquadrato accanto alla finestra, in una luce venerabile da “padre della patria”, Arthur Case (interpretato da Christopher Plummer con la stessa sinistra autorevolezza del suo personaggio di Syriana) è una maschera dell’America ipocritamente assassina, predatrice e guerrafondaia di Bush. Anch’egli recita una messinscena: quando rimane turbato dalla notizia dell’assalto alla banca, vuole indurre il suo “pubblico” (la dipendente che lo informa, poi la polizia e i detective, coi quali improvvisa un brillante, ma sfortunato “numero” di vecchio apprensivo e un po’ svanito) di essere preoccupato per le vite dei suoi impiegati e dei clienti: invece sta temendo che si possa scoprire il suo orrido segreto.

[…] A squali come Madeline White, il sindaco di New York, ad assassini come Case, Spike Lee contrappone la “diversità” intellettuale e morale dell’enigmatico Russell, intorno al quale addensa ogni ventaglio di ipotesi lasciandole senza soluzione, e la coscienza integerrima del detective Frazier che però non sfugge ai limiti della sua funzione di “eroe” e perciò rimane il personaggio più ovvio del film (anche a causa della non eccelsa interpretazione di Denzel Washington). Infatti è l’alibi dell’America pulita ed eroica (oltre che di colore), che scopre il pozzo nero nascosto nel caveau del paese e lo porta alla luce del sole. Peccato che Lee, con la mediocre conclusione di Inside Man (Case scoperto e presto processato; i corrotti intrighi di Miss White e del sindaco vanificati; il detective Frazier presumibilmente santificato), abbia scelto di rassicurare in modo così prevedibile e plateale lo spettatore, probabilmente per garantire al film un successo unanime.

La presenza dei diamanti e soprattutto di quei documenti così compromettenti in una cassetta della banca è un McGuffin che, a rigore di logica, dovrebbe risultare ben poco credibile: perché il mefistofelico Case avrebbe dovuto commettere un’ingenuità simile, che oltretutto spiega con una frase di banale e stridente retorica (avrebbe lasciato la sua anima nei sotterranei della banca che ha fondato...)? Ma quella cassetta sepolta nelle viscere dell’edificio, è un’idea che trascende la mera logica narrativa. Ormai la Manhattan Trust Bank, aperta e violata, trasformata in un teatro di travestimenti e illusionismi, in un labirinto onirico, in un piccolo lager senza soluzione finale, è divenuta una dimensione concreta e dilatata, ineffabile e oscura, delle stanze segrete di un potere che alligna ovunque e in nessun luogo. Quella busta, quel sigillo, quei diamanti, sonocome i resti ancora intatti e non decomposti di uno dei tanti pasti efferati consumati nelle epoche delle imprese fondatrici del nostro presente.