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Questa sera su Italia 1 (canale HD 506) alle 21:25 Iron Man di Jon Favreau, primo film con protagonista il supereroe Marvel interpretato da Robert Downey Jr. Pubblichiamo alcuni estratti dell'articolo che scrisse su Cineforum 475 Mattia Mariotti.


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Il ragazzo dal cuore cibernetico

La prima apparizione di Iron Man a fumetti risale al 1963, per mano dei creatori Stan Lee e Larry Lieber. L’idea è interessante e per certi versi rivoluzionaria per quanto riguarda il mondo dei supereroi. Iron Man non è infatti altro che Anthony Edward Stark (detto Tony), un ragazzo prodigio e genialoide divenuto rapidamente magnate nella creazione di armi sempre più sofisticate da fornire all’esercito americano, impegnato (siamo in piena guerra fredda) nel conflitto vietnamita. Tony, quindi, a differenza degli altri supereroi, non ha subito modificazioni genetiche, o strane contaminazioni. Non ha poteri, non può scomporre il corpo a piacimento. La carne resta carne, il (super) potere è tutto nel metallo che la avvolge, nelle armi sempre più sofisticate che in esso si celano.

All’origine, quindi, Iron Man finisce per incarnare, più degli altri personaggi Marvel, l’attuazione (proprio perché, in fondo, alla portata di tutti) del sogno americano. È l’eroismo del progresso (Tony resta in vita grazie al meccanismo che si è impiantato vicino al cuore), è il mito del self made man innalzato a parabola rassicurante e luminescente. Ed è, allo stesso tempo, l’entusiastica e sognante celebrazione del “puritanesimo” capitalista (Tony si circonda di tutti gli status symbol della contemporaneità: auto, ville, belle donne) e di un patriottismo assoluto, e assolutista (che arriva, nei primi anni del fumetto, a giustificare buie derive come il maccartismo).

In questo senso Iron Man è forse il supereroe più vicino al popolare (e, almeno a tratti, al populistico), è il supereroe che più di tutti incarna/raffigura un senso di paternalistica sicurezza, speranza, fiducia […]. In realtà il film di Favreau sembra voler ricorrere alle gesta di Iron Man per raccontare qualcosa di molto diverso e, per certi versi, d’inaspettato. L’Iron Man del nuovo millennio non combatte i nemici dell’America in terre esotiche e ingarbugliate. Eccezion fatta per un breve episodio in Afganistan, in cui Iron Man interviene, ma non a fianco dell’esercito americano, per salvare una popolazione locale minacciata dai terroristi, Tony si rivolge unicamente alla lotta contro nemici vicini, interni alla nazione. Come se il buio post 11 settembre in cui l’America è precipitata avesse strappato in modo definitivo proprio quegli appigli prima celebrati con tanto entusiasmo e anche, in fondo, ingenuità. Il nuovo Iron Man si trova a dover fare i conti con un capitalismo che non è più le gambe solide dell’America, ma un organismo in decomposizione, che la smania di profitti sempre più ingenti ha irretito e tramortito. [...]

Come si vede, insomma, il film di Favreau riesce nel suggestivo intento di raccontare le luci (poche) e le ombre (molte) dell’America della contemporaneità, lacerata da contraddizioni irresolubili, paure ancestrali, sogni stancamente riciclati. Anche se è altrettanto vero che Iron Man fatica terribilmente nello staccarsi da un cinema che finisce per apparire, in fondo, troppo innocuo, didascalico, consueto. In questo modo le, innegabilmente affascinanti, intuizioni della Marvel finiscono per restare irrimediabilmente lontane da, per esempio, il “filone” mostro-fantastico (e anch’esso strettamente connesso al fumetto) sviluppatosi in Giappone. Qui spesso, si pensi a Shinya Tsukamoto (in particolare Il ragazzo dal palo elettrico, Tetsuo I e Tetsuo II), le inaspettate e truculente contaminazioni tra corpo e metallo, carne e lamiera diventano un modo (beffardo, anarcoide, grottesco) per indagare senza filtri l’osceno che si macera nel contemporaneo. [...]

Immagini-fumetto e immagini-cinema

Quando ci si appresta a rendere in immagini in movimento un’opera a fumetti è inevitabile porsi il problema dell’estetica da adottare. Trattandosi, il fumetto, di una forma visiva consolidata e dotata di un proprio codice, una propria messa in scena che sempre, in questi casi, preesiste al film, le possibilità che si affacciano non sono che due. La prima è provare a trascriverne visivamente l’estetica, limitandosi a qualche circostanziato accorgimento. Il caso più evidente è Sin City, dal cui fumetto si recuperano i tagli di montaggio (molte sequenze sono costruite riprendendo direttamente il corrispettivo di carta), il colore (il film è girato per lo più in una scala di grigi, come i tratti schizzati a china da Miller), le ambientazioni claustrofobiche e “ravvicinate”. [...]

Altri film, invece – è il caso di Hulk di Ang Lee –, prediligono una sorta di formula mista: uso massiccio dello split screen, per esempio (che in qualche modo può essere considerato l’effetto speciale più vicino al fumetto) accanto a un andamento invece fortemente e “classicamente” cinematografico, in perfetta tradizione hollywoodiana. Il fumetto costituisce, insomma, in questi casi, una sorta di storyboard, imprescindibile per le scelte successive di regia.

L’altra possibilità è invece quella di servirsi del fumetto come mera fonte d’ispirazione, procedendo poi a una messa in scena autonoma e interamente “cinematografica”. E questo è il caso proprio di Iron Man, in cui, eccezion fatta per alcuni rapidi passaggi (l’incipit, un combattimento aereo tra Iron Man e due caccia americani, ripreso fedelmente da un episodio della serie), è difficile rintracciare, nella regia, matrici legate a un’estetica da fumetto. Emblematica, in questo senso, la stessa volontà di inserire nel film numerosi elementi slapstick (assolutamente assenti nella serie Iron Man). Il film di Favreau ha infatti frequenti aperture a una comicità fisica, immediata, questa sì “fumettosa” (con tanto di soffitto sventrato da Tony che si alza in volo per raggiungere il cielo). Così gli stessi tentativi di messa a punto dell’armatura sono accompagnati da continui “infortuni”, tutti giocati sull’inciampo iperbolico, o su improbabili capitomboli cibernetici.

Altrettanto inaspettato è l’uso assai parco del digitale. Scelta inconsueta (si pensi agli altri adattamenti marvelliani, da X-Man a I Fantastici Quattro, allo stesso Spider Man), ma estremamente lodevole. In questo modo il film si struttura (imprevedibilmente) come un’opera più complessa, aperta al sorriso, ma in grado anche di raccontare le tormentate angosce del presente. Per una volta il fumetto sullo schermo non diventa facile Luna Park digitalizzato, roboante fiera di tecnologiche vanità.

Per una volta un supereroe della tradizione machista e patriottica americana prova a svelare ciò che si nasconde dietro armi sofisticate, metallo inscalfibile, voli nello spazio. E prova a raccontare, pur se in maniera divertita, il frantumarsi, sotterraneo, di quei sogni che fino a ieri (fino a oggi) hanno provato a sorreggere un immaginario collettivo americano sempre più disossato dai suoi fantasmi, e dai suoi incubi.