John Rambo di Sylvester Stallone

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Questa sera su Rete 4 alle 21:15 John Rambo, diretto e interpretato da Sylvester Stallone. “Il quarto capitolo sul veterano del Vietnam più famoso del mondo” come scrisse, per Cineforum 473, Pier Maria Bocchi nel suo articolo, di cui pubblichiamo di seguito alcuni estratti.


Guardare e morire

Lo scempio perpetrato da Fulvio Lucisano e dalla sua Iif su John Rambo ha un qualcosa di birmano. Per evitare il divieto, la durata del film è stata drasticamente ridotta, maciullandola nella violenza e nel sangue. Nessuna morale protezionistica: per le sale italiane, John Rambo ha subito i tagli di una censura cieca e stupida, che guarda al botteghino e non alla salvaguardia dei minori. Tant’è che così com’è finito, a poco più di ottanta minuti, John Rambo non ha nemmeno il divieto ai minori di quattordici anni. Cose d’altri tempi, verrebbe da dire. [...]

Intervenire sullo splatter e sul gore di John Rambo significa castrarne il significato a monte. Il quarto capitolo sul veterano del Vietnam più famoso del mondo è anche il più apocalittico; e oggi mettere in scena l’apocalisse ha senso quando si fanno vedere le cose. [...] Rambo non sta a tavolino o dietro i paraventi, agisce nella giungla, vive vendendo serpenti velenosi da combattimento, sfodera il suo corpo. Non vive di testa, il suo essere nel mondo è praticato con la pancia. Ma dal primo capitolo è passata molta acqua sotto i ponti: non è più una guerra privata, quella di Rambo, piuttosto una testimonianza, e tutt’altro che passiva. Il suo autore, Sylvester Stallone, sessantun’anni suonati e quasi sessantadue, è l’unico del suo tempo ad aver messo una lapide non soltanto su due icone dell’immaginario cinematografico del Ventesimo secolo (e anche letteralmente, nel finale di Rocky Balboa), ma anche sul sentimento di un’epoca, la nostra, in particolare su come essa guarda al mito. Senza mezze misure, con lo stomaco, appunto.

Dopo aver attuato una carneficina per porre fine a un’altra carneficina, Rambo si fa finalmente coraggio, e torna a casa dal padre. L’esatto opposto di un happy end: perché quel ranch famigliare perso nell’America più profonda vale per l’ex soldato come una resa definitiva e incondizionata, abbandono simbolico delle armi. [...] E Stallone, a differenza di uno Schwarzenegger, sceglie la strada dell’annullamento; a cui giunge prendendo parte a un massacro in nome dell’altruismo missionario. Più chiaro di così. Il bisogno odierno di una ragione cristiana per spargere il sangue – proprio e altrui – è per Rambo l’ultimo simbolo (o quello primario, che è lo stesso) del caos. Che si offre allo sguardo nel formato scope, ovvero coprendo il più ampio spettro visivo possibile: quando, dopo aver mitragliato senza interruzioni, Rambo osserva dall’alto il campo rosso di morti, dove ormai la vegetazione ha lasciato il posto a pezzi di corpi sparsi ovunque, la chiusura del cerchio è evidente, l’eliminazione del nemico per la giustezza universale della causa.

[...] L’incipit del film del 1982 è identico – nell’animo – alla conclusione del film del 2008. Sono aumentati a dismisura il pessimismo e l’offerta della violenza, ma il significato del reingresso è il medesimo. Rambo torna a casa sulle sue gambe, ma è come fosse dentro una cassa da morto. John Rambo non c’entra niente né con le produzioni eighties di Golan & Globus, né con gli action di Joseph Zito e Chuck Norris. La sua elementarità spartana rappresenta l’altra faccia di Rocky Balboa, quella nera e carnale, sottratta della malinconia e dello spessore psicologico. La psicologia, in John Rambo, non serve perché non aiuta più, sarebbe ordinaria, comune, grossolana. Quale psicologia dovrebbe esserci nella scena di un bambino in fiamme? Stallone, più sapientemente di quanto saremmo disposti ad accettare, azzera per l’appunto la testa: il ragionamento è in questi casi una dinamica politica, e sappiamo a cosa portano i ragionamenti di stato. La psicologia dominante, intesa come motivo politico e causa di rappresaglia, in John Rambo lascia il posto a un’azione che viene da una sensibilità di sguardo pura, senza sotterfugi né manovre d’alto bordo. [...]

Nessuno nel cinema contemporaneo d’intrattenimento ha officiato un funerale mitopoietico retroattivo pari a quello di Sylvester Stallone per i personaggi di Rocky e Rambo. Non l’ha fatto Schwarzenegger per l’androide Terminator, né Bruce Willis per il suo John McClane in canottiera. Senza parlare di corpo e corpi, ovvero il discorso più abusato e pedestre, il nuovo John Rambo funge da testamento su un immaginario e sulle aspettative che lo riguardano. In più, possiede la forza di ridiscutere l’eredità lasciata e guardare conseguentemente al sé del passato con occhi diversi, adattati sul presente. Stallone non si spinge a criticare niente di ciò che Rambo ha fatto due decenni fa, ma ha il fegato di riprendere il ruolo con cognizione di causa. [...] Rambo è un rottame ideologico, e non è più utile: il Vietnam e l’Afghanistan sono preistoria; la Tailandia e le sue foreste sono un rifugio in ombra; la Birmania è la sua ultima stazione, d’arrivo. Stallone, oggi, in questo mondo libero, è libero (di più almeno di molti suoi colleghi), ma libero di far morire una leggenda iconica diventata – suo malgrado? – politica.[...] Stallone (a differenza di Eddie Murphy, per esempio, e un solo Dreamgirls non cambia le cose) ha capito una buona volta che per essere ancora se stesso deve uccidere la sua mitologia, mortificarla e strapparle la pelle; per farlo, non basta la parodia (Oscar – Un fidanzato per due figlie), e non è sufficiente una sola messa in gioco efficace del proprio statuto (Cop Land). Ha capito, l’attore hollywoodiano, che non si può cambiare e rinascere, soprattutto in questo sistema “libero”. E che l’unico modo per confermare pubblicamente il proprio nome, al giorno d’oggi, è umiliarsi rincasando, dopo aver svolto compiti inutili e senza alcun successo. Con John Rambo, complementare e speculare di Rocky Balboa, Sylvester Stallone acconsente alla condanna suprema, quella che lo cancella dal mondo dopo averlo avuto prima come soldato e poi come testimone di un genocidio; un testimone che non può che chiudere la bocca e gli occhi, chi lo ascolterebbe?