L'intervallo di Leonardo Di Costanzo

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Stasera alle 21:15 su Rai5 L'intervallo il film che è valso il David di Donatello 2012 a Leonardo Di Costanzo come miglior regista esordiente e in generale uno dei migliori esordi nel cinema italiano degli ultimi anni. La nostra recensione, a firma di Antonio Termenini, è da Cineforum 518 dell'ottobre 2012.


L’aspetto indubbiamente più interessante e peculiare di L’intervallo, del documentarista Leonardo Di Costanzo, non risiede nell’averci raccontato una delle tante vicende terribili che abitano la Gomorra quotidiana, ma nel come ce l’ha raccontato, particolare ancora più importante se si pensa, appunto, che il background di Di Costanzo non è quello di un tradizionale filmaker. Due personaggi, un ragazzo e una ragazza, un grande edificio abbandonato che solo in una panoramica nelle scene finali vediamo inserito in un quartiere immenso, sovrappopolato e caotico. Una struttura chiaramente teatrale per un testo che potrebbe essere portato anche sul proscenio di un teatro, ma che ha il suo pieno senso unicamente inserito in una dimensione cinematografica.

Di Costanzo, sin dall’inizio, non ci fornisce le coordinate del luogo in cui ci troviamo. È unicamente dalla natura di alcuni dialoghi che percepiamo che Salvatore, su ordine di un certo Bernardino, non può far fuggire Veronica, e che ci troviamo a Napoli e nei suoi dintorni in una vicenda di malavita di piccolo cabotaggio.

L’unità di tempo e di luogo configura una struttura teatrale che improvvisamente si spezza quando i due iniziano a muoversi, perpendicolarmente e parallelamente a quell’enorme stanza in cui Di Costanzo aveva iniziato a filmarli. Per Veronica e Salvatore inizia un lungo viaggio, fisico e mentale allo stesso tempo, che li catapulta in una realtà altra, in un essere altrove. Progressivamente l’atmosfera di tensione tra i due si scioglie, proprio nel momento in cui scoprono che esiste “un mondo” fatto di acqua (anche artificiale), di uccelli che si riparano dalla pioggia ma che, allo stesso tempo, la annunciano, un mondo in cui appaiono spontaneamente le prime pulsioni sessuali (quando Veronica si toglie la giacca di jeans e Salvatore la guarda quasi turbato e quando Veronica cerca un posto per far pipì). Un mondo, degli spazi che si moltiplicano progressivamente, che sembrano senza limiti, senza restrizioni, senza leggi prestabilite.

Di Costanzo, con un’intuizione autenticamente geniale, riesce a fare cinema documentaristico, in un certo senso pauperistico ed estremamente rigoroso da un punta di vista formale, ma allo stesso tempo metafisico, sognato. E soprattutto autentico, alimentato da vera compassione (per la ragazza che si uccise perché gravida e sulla cui fotografia abbandonata in un angolo di una stanza del palazzo i due adolescenti ripongono un mazzo di fiori raccolti all’esterno) dove improvvisamente ci si accorge della presenza inaspettata di una vita (la scoperta dei piccoli cuccioli di cane appena partoriti). Quel mondo che i signori di Gomorra negano tutti i giorni a ragazzi come Veronica e Salvatore.

Solo alcuni particolari inseriti nei dialoghi contestualizzano meglio la vicenda. Iniziamo a comprendere che Veronica ha compiuto uno sgarro nei confronti di qualcuno o, meglio, della comunità a cui appartiene, che Salvatore, per poter racimolare qualche soldo e rendere la vita meno difficile al padre, si è prestato “ad accudire” Veronica fino a quando una determinata situazione non si è chiarita e poi risolta. Ma c’è un dentro e un fuori, magnificamente inquadrato in una delle scene più rivelatorie del film. Salvatore e Veronica, dopo aver attraversato stanzoni tra la luce e il buio, tunnel sotterranei apparentemente minacciosi, risalgono. Su una terrazza, per la prima volta, si vede “il fuori”. Vedono Gomorra. Di fronte, speculare all’edificio in cui si trovano, un altro palazzone, questa volta sovrappopolato da unità abitative claustrofobiche e parcellizzate. Poi una strada caotica, divisa in piccoli territori di appartenenza che fanno riferimento a un clan più o meno piccolo, più o meno invasivo.

Dentro e fuori. Due realtà, una palpabile e oppressiva, l’altra sognata, per certi versi la proiezione mentale di due adolescenti che tentano una via di fuga. E che si interrogano sul passato (si scopre che Salvatore non ha la madre, e che il “peccato” di Veronica è stato quello di “essersi messa” con il ragazzo sbagliato, sempre secondo le regole di Gomorra), sul presente (come finirà la giornata e come usciranno da quel luogo), ma anche su un ipotetico futuro (le aspirazioni e i sogni dei due). Incombe intanto il buio, e il luogo in cui Salvatore a Veronica hanno attraversato la giornata diventa sempre più tetro e minaccioso.

Da altri dialoghi tra i due apprendiamo che per la ragazza si avvicina il momento della verità, l’incontro con Bernardino, evocato sin dall’inizio come figura misteriosa, assente ma incombente. Da questo momento, fino al finale, dentro e fuori non sono più separati. Si uniscono. Diventano un corpo solo. Nella penombra (grazie alla sapienza di Luca Bigazzi) Bernardino si avvicina sinuosamente a Veronica, spiegandole le semplici, ma ferree regole di Gomorra. Uno scambio mai sopra le righe, molto sottotraccia, con Bernardino che viene perfettamente caratterizzato nel suo desiderio di controllo del reale e del territorio, ma anche in una libido frustrata che si manifesta nell’evidente attrazione per la quindicenne. Un abbraccio, un bacio appena abbozzato. Salvatore non assiste ma, ancora una volta, si “immagina” quello che può accadere. Ancora in penombra, l’assistente di Bernardino, soddisfatto di come il ragazzo ha gestito nel corso della giornata la situazione, gli allunga cinquanta Euro «per il suo disturbo», oltre al cellulare temporaneamente prelevato.

Veronica torna a Gomorra, alla sera; Salvatore, come di consuetudine, monta il carretto per le granite assieme al padre. Termina così la loro giornata particolare.