L'ultimo dei Mohicani di Michael Mann

focus top image

Stasera alle 21:20, su Tv8, uno dei grandi film di Michael Mann, L'ultimo dei mohicani. Nel 1992, sul n. 322 di Cineforum, ne scrisse Steve Della Casa.


Il mondo delle grandi foreste del Nord America fa tradizionalmente da sottofondo per un filone ricco di nobili tradizioni western. Alla base di tutto vi è certamente un elemento di contenuto: sullo sfondo di quei meravigliosi scenari si sono ben due guerre, quella tra gli inglesi e i francesi e successivamente tra i coloni indipendentisti e l’esercito della madrepatria. Due conflitti che autorizzano la riproposizione di scenari bellici in cui due eserciti di bianchi si combattono in una lotta senza quartiere, con gli indiani relegati al ruolo di alleati dell'una o dell'altra fazione, senza che il mito dell'America come conquista progressiva della frontiera sia mai messo in discussione (al contrario di quanto avviene per quanto il terzo conflitto avvenuto in America tra eserciti di pelle bianca, la guerra di secessione: e infatti questa è per lo più oggetto di attenzione da parte dei western critici rispetto alla normale riproposizione del mito).

Cecil B. DeMille ha scelto infatti i boschi secolari del nord per ambientare il suo ultimo western, il più bello a iniziare da quel titolo (Unconquered, banalizzato dall'italiano Gli Invincibili) che riassume la molla principale e al tempo stesso il fascino della conquista della frontiera, e con Boris Karloff (il volto del male nel cinema americano di genere) chiamato a impersonificare Ii capo degli indiani. Dal canto suo King Vidor, nell'altro film dal titolo stupendo (North-West Passage, tradotto letteralmente con Passaggio a Nord Ovest), ha narrato come gli uomini forti destinati a creare dal nulla il nuovo mondo fossero al tempo stesso e in pari misura coraggiosi e crudeli, e anche un po’ nevrotici, al punto di giocare a palla con le teste mozzate dei nemici.

In tempi in cui il western sembra destinato a riapparire dopo un lungo sonno e pare attento ad inserirsi nel filone trainante dell'ecologia, riadattare per lo schermo un classico della letteratura d'avventura come L'ultimo dei Mohicani poteva essere la scelta più banale; al punto da sembrare anche un briciolo autolesionista, perché come sappiamo i grandi classici d'avventura non godono più del rispetto dovuto e di un grosso appeal presso il grande pubblico nell'epoca del pensiero debole e del riso minore. Ma L'ultimo dei Mohicani versione 1992 gode di una marcia in più, la regìa affidata a quel Michael Mann che è uno dei pochi nomi interessanti tra quelli apparsi nella Hollywood standardizzata degli anni Ottanta. Il decennio si è infatti caratterizzato oltreoceano per un brutto cinema (con grandi eccezioni d'autore), mal girato e spesso banalizzato sotto l'usbergo di effetti speciali mastodontici.diventati salsa di condimento indispensabile per caratterizzare un poco opere caratterizzate dal tema dominante della noia e della piattezza. Anche lo star-system non ha riservato

grosse sorprese: gli attori apparsi all'orizzonte (anche qui con significative ma non decisive eccezioni) presentano carriere e modi di essere facilmente e tristemente riassumibili: grande insistenza sull'aspetto sex-symbol, programmazione quasi maniacale di ogni uscita pubblica, anticonformismo di facciata molto esibito magrande capacità di adattamento alle idee dominanti. Nella piattezza del decennio scorso, un film come Manhunter di Michael Mann non poteva passare inosservato presso i critici più attenti. E non solo perché, assai prima di quanto abbia fatto Jonathan Demme, veniva tradotto sullo schermo u n personaggio chiave, quello di Hannibal Lecter più noto universalmente come Hannibal the Cannibal. Se Mann si è dedicato a portare s ullo schermo L'ultimo dei Mohicani, una spiegazione ci deve essere. Anzi, è evidente: il successo mondiale, superiore alle aspettative (e forse anche agli indubbi meriti) di Balla coi lupi. Al punto che il romanzo di Fenimore Cooper è stato praticamente riscritto e reinterpretato: l'indiano bianco che ne è protagonista è molto indiano e poco bianco, la ferocia dei pellerossa ha alle sue origini una morale da non inferiore a quella che spinge i due eserciti bianchi a massacrarsi quotidianamente a colpi di cannone e scavando inutili trincee. L'indiano bianco, assieme al patrigno e al fratellastro, si schiera dalla parte dei coloni dall'esercito inglese ad arruolarsi con false promesse; si copre di valore al punto da attirare su di sé l'amore della bella cittadina snob rampolla prediletta del comandante inglese; l'aiuta a fuggire dalle mani degli indiani che l'hanno catturata (uno di loro ha giurato di ucciderla per quanto ha dovuto subire in precedenza dal padre) e, dopo vari colpi di scena, ucciderà il rivale in uno scosceso sentiero di montagna. Ma il suo fratello, l'indiano vero che ha nel sangue la tradizione e la gloria del popolo mohicano, è morto; e il film si chiuderà con il padre che sta chiedendo ai suoi dei di farlo morire al più presto a sua volta, non potendo immaginare la propria vita come unico sopravvissuto di una gloriosa schiatta.