L'uomo che sussurrava ai cavalli di Robert Redford

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Questa sera su Rai 3 (canale HD 503) alle 20:30 L'uomo che sussurrava ai cavalli di Robert Redford (tratto dall'omonimo romanzo di Nicholas Evans). Pubblichiamo il pezzo di Franco La Polla scritto per Cineforum 378 (sullo stesso numero si può trovare anche l'articolo di Paolo Malanga).


Le due Americhe di un attore-simbolo

Bisogna rendere a Robert Redford l'onore delle armi: egli è probabilmente l'unico regista americano odierno a farsi amare e rispettare anche quando non convince o addirittura sbaglia. La ragione è semplice: Redford crede in quello che fa, e negli anni ha mostrato una coerenza come ben pochi altri possono vantare. Fedele al suo originario mito attoriale, egli ha continuato a scavare nella miniera delle virtù americane originarie anche come regista, erede, più che di una qualche tradizione cinematografica, di una visione dell'homo americanus e dell'America stessa che gli viene dai primi grandi teorizzatori, Jefferson, Crèvecoeur, eccetera. Il suo ultimo film - in sostanza "Il cavaliere elettrico incontra Gente comune" - inscena una volta ancora la sua personale nostalgia di un'America che sta svanendo e che si confronta con quella che da tempo rappresenta la nazione: gli Stati Uniti dell'urbanesimo, della vita metropolitana, dei mezzi di massa, dell'alienazione interpersonale.

C'è molto della Hallie pollackiana in Annie (una splendida Kristin Scott Thomas), così come c'è molto del Timothy Hutton di Gente comune in Grace. Redford ci serve la differenza su un piatto d'argento: la famiglia di Annie è l'esatto opposto di quella di Frank, il fratello di Tom. C'è un lontano sapore di John Ford in questo Montana che, come dice scherzando Paul, assomiglia a Marlboro County, e la pellicola rientra in una linea culturale che da molto tempo ha avvertito la fine di un'“altra America" e le sta dando il suo lungo, lunghissimo addio: si pensi a Larry McMurtry (e ai film tratti dai suoi romanzi) o a certa parte della filmografia di Peckinpah, da L'ultimo buscadero a La ballata di Cable Hogue. E soprattutto si pensi allo stesso Redford di In mezzo scorre il fiume.

Ma forse è la famiglia come nucleo centrale della civiltà americana ad interessare più d'ogni altra cosa l'attore-regista. Annie, Grace e Paul sono una triiade emblematica di ciò che Redford intende per "moderno": uno scardinamento degli originari valori affettivi, uno scrambling di ruoli ed emozioni sacrificati sull'altare di interessi estranei. Redford non è uno studioso, uno scienziato, e si limita alla registrazione fenomenologica delle cose. E lo fa con straordinaria eleganza e intelligenza: la sequenza a Little Big Horn è proprio bella, e l'immagine di Annie che mormora parole incomprensibili davanti allo specchio è degna di un regista grandissimo.

Redford tuttavia sa bene che da molto tempo è in atto un mutamento che ci sta portando a una rivoluzione delle istituzioni. Forse un po' moralisticamente egli si è proposto il compito di ricordarci come eravamo. Ma il suo film, lungi dall'essere una celebrazione degli affetti familiari e della responsabilità, ci mostra abbastanza chiaramente come ormai il processo in corso è irreversibile: è vero, sì, che Annie sceglie la famiglia, ma è anche vero che non sceglie la vita alternativa incarnata da Tom. La speranza non detta della pellicola è che all'interno del cambiamento ognuno sappia prendersi le responsabilità che gli competono. Ma la maturazione di Annie non significa necessariamente la vittoria dei valori dell'”altra America", così come in Il cavaliere elettrico il saluto solidale di Hallie al cowboy lungo le onde dell'etere non significava affatto che l'America simboleggiata dal cavaliere avesse molte chances per il futuro.

Nel cinema di Redford vi sono spesso due Americhe. Il problema è: per quanto tempo potrà durare quella di cui esso denuncia l'oblio? A questo punto si comprende bene che L'uomo che sussurrava ai cavalli non è tanto un film sbagliato, ma un film obsoleto, vale a dire una pellicola che inscena una situazione e per certi versi un dilemma dei quali conosciamo da tempo gli estremi. Redford è abile nel proporceli in una cornice adeguata, ma rischia non poco dilatandola a più di due ore e mezza, dal momento che per essere fedele nel rendere i ritmi di quella vita mette a repentaglio l'attenzione di uno spettatore che, bene o male, appartiene alla civiltà antagonista e che proprio per questo avrebbe forse dovuto essere condotto alla (ri)scoperta dell'altra in modo magari più didascalico, ma comunque meno mitologico di quello che inevitabilmente ci si trova di fronte quando il suo simbolo più forte (cioè lo stesso Redford) ha giocato quel ruolo per trent'anni.