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Alle 23:15 su Iris andrà in onda La grande abbuffata di Marco Ferreri forse l'opera più celebre del regista milanese e senz'altro uno dei film più emblematici del suo tempo. Pubblichiamo un estratto della scheda che Adelio Ferrero scrisse su Cineforum 132, nel 1974, ai tempi dell'uscita del film nelle sale. Nello stesso numero c'è una lunga intervista a Ferreri curata da Paolo Mereghetti di cui abbiamo già riportato alcuni estratti in occasione del book "Tutto Marco Ferreri" pubblicato sul num. 560 della rivista nel gennaio di quest'anno.


Nel giardino della villa di Neuilly, dove i quattro commensali di La grande bouffe si ritirano a celebrare la loro macabra kermesse conviviale, troneggiano severamente il tiglio e una lapide commemorativa di Boileau, accanto alla quale si spegnerà Philippe, dopo avere ingurgitato la sua ultima, micidiale porzione di dolce. E prima, in uno dei suoi imprevedibili sfoggi eruditi, dalle pagine eleganti e distaccate di Madame de Sévigné, Ugo aveva evocato la morte di Vatel, prestigioso cuoco del Gran Condé, suicidatosi per il timore, e la vergogna, che un pesce pregiato non arrivasse in tempo alla tavola del Re Sole. Due «citazioni» in apparenza esterne, in realtà decisive nel determinare il sottile contrappunto aristocratico e alto-borghese che accompagna, in sordina e per contrasto, il degradato annientamento dei personaggi.

Del resto, basta varcare la soglia della villa per rendersi conto che splendore cortigiano ed etica dell'«honnête homme» sono consegnati, da secoli, alle biblioteche e alle lapidi, appunto. Se il giardino, con le forme e i colori sfatti e stagnanti dei suoi viali e sentieri, evoca diffusi sentori di morte, gli interni, sovraccarichi di fregi e tendaggi, lampade e decorazioni che stanno, ambiguamente, tra la cripta sepolcrale e il mausoleo liberty, si offrono come una nicchia pronta ad accogliere, nel suo tanfo morbido e protettivo, l'ingloriosa agonia dei protagonisti: e Michel vorrà per sé un lettino incassato nel muro, un loculo caldo e segreto.

Non a caso Ferreri lascia nell'ombra e rilancia allo spettatore (è un aspetto ormai «istituzionale» del suo modo inquietante di fare cinema, dai lontani esordi spagnoli a L'udienza) l'interrogativo sulle «ragioni» di questo torvo e accanito annientamento. In verità, la grande scelta è a monte del film e i quattro, a modo loro, l'hanno fatta prima che il racconto si apra. Ferreri, non dimentichiamolo, ha girato il suo film più rarefatto, Dillinger è morto, in pieno '68: certo egli non ama la sovrapposizione didascalica, e il «senso» dei suoi film, dissimulato nelle pieghe del racconto, va sempre cercato nei segni e nei rapporti che lo istituiscono testualmente, non nel «commento».

Così dovrebbe esser chiaro, non perché lo dicano ma per la determinazione con la quale percorrono sino in fondo le stazioni del loro inglorioso calvario, che almeno tre di costoro hanno capito, una volta per tutte, che all'interno o ai margini della borghesia e del tipo di organizzazione che essa ha saputo imprimere all'esistenza, nel suo ciclo produzione-consumo, vita-morte, non si dà salvezza. Hanno avvertito, con una semplificazione estrema ma irrefutabile, che lì si vive solo per crepare. E hanno deciso, dunque, di affrettare, con un'accelerazione congestionata e apoplettica, i tempi lunghi di un'agonia che si consuma, letteralmente, nei giorni (le opere sono rimaste nei titoli dei libri e nelle tirate enfatiche dei tromboni).

Una consapevolezza acuita dalla particolare funzione servite che essi si riconoscono, di fatto, nei confronti della classe al potere. Si tenga presente lo status «professionale» dei quattro: un pilota di linee aeree internazionali, un cuoco prestigioso, un tecnico raffinato della comunicazione pubblicitaria, un giudice che conosce e pratica le avvilenti sproporzioni tra la giustizia e la legge. Assortimento bizzarro, in apparenza «casuale», di quella casualità perfida e rivelatrice che è nelle tradizioni del miglior Ferreri. l quattro livelli della condizione servite non potrebbero, in verità, riuscire più esemplari: i più alti sono anche i più bistrattati, in vita e in morte. Michel, intellettuale mancato, omosessuale mancato e (dal poco che se ne può intuire) marito e padre mancato, eroe delle mezze misure ammantate di eleganza e distacco, è beffardamente esposto alle rivalse subdole e feroci di quel suo ventre che non gli ubbidisce e gli procura spasimi e sconvolgimenti infernali nei momenti meno «opportuni». Impastato di merda, sia pure sublimata nella declamazione apocalittica, morirà sciogliendosi nei propri escrementi. Philippe, il giudice che in tribunale assolve e condanna, è, in casa, un molle bambino di mezz'età coccolato e masturbato dall'anziana madre-balia-nutrice che ne conosce e coltiva tutte le debolezze. Il suo corpo, già inquinato dal veleno dei troppi dolci sciolti nel sangue, cederà definitivamente di fronte al grasso budino rosa che raffigura due enormi seni protettivi.

In effetti, Ferreri non è mai stato così feroce come in questo suo film, meno rigoroso di Dillinger, meno intimo e turbato di L'udienza, ma certo, di tutti il più denso di nera, implicata iracondia, e di timbro apocalittico dietro certe apparenze clamorose e fuorvianti. Se la «scelta» del suicidio e quel modo di annientarsi poterono sembrare attraenti in un momento di eccitata infatuazione, l'esperienza smaschera anche quella illusione e ripiomba i protagonisti nell'universo del consumo degradato al quale, forse, si erano illusi di sfuggire. L'epicureismo non c'entra per niente, non li sfiora neppure, la sua intatta luminosità resta inattingibile: qui non c'è piacere ma solo plumbea, nera reificazione che deborda da ogni parte e si scatena e si e spande nel diluvio universale della merda, come dice Ugo. Occorre ben altro che le ricette preziose e le citazioni dotte povero Ugo: questo è soltanto laido, fetido imbestiamento della carne e del sangue. L'orrore della vita reificata, ridotta a consumo, ci viene rimandato, ingigantito e stravolto, da questa teratologia della «buona tavola». C'è poco da stare allegri nella maniacale processione di portate abnormi e gigantesche, nella sudata kermesse di ingestioni folli e meccaniche, di antichi e nuovi fetori che si fondono in una misceta venefica e asfissiante: le puttane se ne accorgono in tempo, fiutano puzzo di cadavere (quel mazzo premonitore di spiedini lividi e mummificati...) e tagliano la corda. Anche Marcello, che dei quattro è il meno tortuoso e ossessivo e potrebbe aver accettato di finirla, con loro, per leggerezza o dopo una sbornia, ma ora ha soltanto paura, una paura che gli tira e stravolge la faccia, tenta di fuggire. Ma è troppo tardi. La Bugatti non parte, come non partiva l'aereo-giocattolo di La cagna, e Marcello, come è giusto secondo la logica di questo impietoso e deterministico apologo, finirà nel frigorifero, marionetta impettita tra carni congelate e irrigiditi salumi.

Se l'esistenza quantitativa come consumo non tollera scarti e trasgressioni, la morte non può smentirla, può solo esasperarne l'ignominia: l'unica «grandezza» consentita sembra consistere nella volontà di vivere sino in fondo il proprio abbruttimento. In questo senso, il più volgare del gruppo, Ugo, è anche il più conseguente: inghiottirà sino all'ultimo boccone il micidiale pathé. Ugo non ha paura: negli altri, invece, la morte è avvertita con orrore aristocratico o fisologico (Michel e Marcello) o raggiunta senza avvedersene, con infantile e torbido abbandono (Philippe).