La stanza del figlio di Nanni Moretti

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Questa sera, alle 21.10, La7 prosegue l'omaggio a Nanni Moretti con La stanza del figlio, Palma d'oro a Cannes nel 2001. Sarà lo stesso regista a presentare il suo film, mentre noi siamo andati a ripescare dagli archivi della rivista alcuni passaggi di un bellissimo testo di Bruno Fornara (Cineforum 403), che mette il film di Moretti in relazione con la sua filmografia e l'evoluzione del concetto di morte da Palambella rossa a Caro diario e Aprile.  


Erano un’infinità, in Caro diario, le cose che a Moretti piacevano più di tutte. Il Giovanni della Stanza del figlio ha l’aria di uno che ha tutte le cose che gli piacciono più di tut- te. «Che bello sarebbe un film fatto solo di case», diceva Moretti in Caro diario. Giovanni vive in una bella casa con una bella famiglia, in una tranquilla città... Fino al momento in cui, senza avvertire, nella casa del padrone di casa arrivano la morte e il male ultimo e irreparabile. Che sono sempre al lavoro, sempre in ricognizione, arrivano non solo quando non te l’aspetti, arrivano quando non pensi neppure più che esistano, non ti ricordi di loro, non appartengono al tuo orizzonte. C’è già il dolore nella vita di Giovanni, ma il dolore dei pazienti sembra essere controllabile, come addomesticato, è un dolore a misura della casa.

Anche quando Oscar si ammala di cancro (è il paziente che sogna botole scale corridoi labirinti: la sua casa interiore dev’essere contorta e oscura), in fondo il caso rientra nella norma. E si puoò anche pensare di impegnarsi per vincere la malattia. Si può pensare di uscirne fuori, come era successo proprio al Nanni Moretti di Caro diario. Il dolore della malattia lo puoi affrontare, lo conosci, ci vivi. Ma cosa fai se il dolore, nel suo giro di ricognizione, ruba un figlio al padrone di casa, se ti muore un figlio sotto il mare...

L’irrompere della morte coglie di sorpresa. Lo psicanalista Giovanni non accetta la frase evangelica ricordata dal prete durante la messa in ricordi di Andrea: «Se il padrone di casa sapesse a che ora viene il ladro...». La morte in ricognizione non avverte prima del furto. Giovanni ritorna il Moretti che abbiamo conosciuto nella piscina di Palombella rossa, quello che non sopportava il linguaggio impreciso, sciatto, incomprensibile. Con la differenza che questa volta non è una semplice questione di stile. Giovanni grida: «Il ladro? Il padrone di casa? Ma che frase è?». Il suo non accettare la frase e il suo ribellarsi non vanno contro lo stile dell’espressione. Lo stile non c’entra. Qui non si può sopportare la verità di quello che è successo, la verità di una frase troppo chiara e troppo semplice.

L’ossessione di Moretti, più o meno nascosta dietro i tanti paraventi (la politica, le battute, i tic, l’indignazione, lo stile, la nutella, lo sport...), è quella della morte. In Caro diario, il fantasma della propria morte girava (andava in ricognizione) per tutto il film. […] La malattia in Caro diario sta nel fuoricampo. C’è ma non si vede. In La stanza del figlio, al centro del film, c’è la morte del figlio, c’è il figlio nella bara, c’è un coperchio saldato che lo nasconde per sempre.

Cosa si può fare dopo la ricognizione della morte? La stanza del figlio sta tutto in questa domanda. E nella sola risposta possibile, nella giusta risposta. Nel trovarla. In Isole, l’episodio di mezzo di Caro diario, film decisivo nel percorso di Moretti, film in cui prende il via l’abbandono del morettismo, film in cui ci si comincia a misurare con il mondo, il protagonista Moretti si rifugiava alle Eolie, «sicuro che a Lipari combinerò qualcosa». Invece vi incontrava una lunga teoria di diversi tutti così uguali che la conclusione cui il protagonista arrivava era questa: «Caro diario, sono felice solo in mare, nel tragitto da un’isola che ho appena lasciato a un’altra che devo ancora raggiungere».

Prima della malattia, Moretti è felice solo in mare, tra un’isola e l’altra. Non ha terraferma, non sa dove abitare e come abitare un luogo. Dopo la malattia, Moretti continua a girare per Roma e trova un sacco di cose più belle di tutte. In Caro diario non si faceva altro che girare: girare di isola in isola, girare di medico in medico, girare un film. Anche la guarigione era un continuo girare, era un riprendere le misure del mondo: girare in vespa per fare l’inventario delle cose più belle di tutte. Poi, è venuto il tempo di fermarsi: in Aprile è nato un bambino. E adesso che Giovanni ha messo radici, ha tutto ed è cambiato (è scomparsa persino la nutella, sostituita da una sottiletta col pane), adesso che non solo non ha più paura degli altri ma sta ad ascoltare le loro paure, adesso passa la morte a portargli via un figlio.

La ricognizione del dolore, genitivo oggettivo e soggettivo. C’è il dolore che gira in ricognizione e colpisce a caso. E c’è la risposta di chi è stato colpito e si trova a dover partire in ricognizione intorno al proprio dolore, per cercar di capire cosa fare, come riuscire a andare avanti. Non c’è nella Stanza del figlio ciò che non ci può essere: non ci sono, come molti invece hanno detto (perché mai? dove? in quale scena?), né l’elaborazione del lutto né la cognizione del dolore. Un lutto così non si può né elaborare né comprendere. Si può solo portarselo dietro. Il punto è come farvi fronte, come guardarlo ogni giorno. Come rispondere alla sua presenza in ogni momento. Non come sbarazzarsene, superarlo, elaborarlo.

È Arianna a portare la risposta. Seguendo il suo filo, Giovanni, Paola e Irene partono in ricognizione. Arianna non è bella, non è quella che Paola pensava che fosse. È una ragazzina come tante, chissà perché Andrea si era innamorato di lei. Arianna ha un altro amico, fanno l’autostop, vorrebbero andare in Francia. Arianna e Stefano chiedono un passaggio. E Giovanni, Paola e Irene glielo danno, li portano in Francia. Mentre guida di notte e i ragazzi dormono, Giovanni sorride: sta facendo qualcosa, sta rispondendo al dolore. (Anche prima, quando il paziente con problemi di sesso si era messo a spaccare tutto, Giovanni non aveva potuto fare altro che abbracciarlo, eliminare le distanze.) C’è una sola risposta giusta al dolore immedicabile: aiutare qualcuno. Aiutare è lo stesso che aiutarsi.