La vita di Adele di Abdellatif Kechiche

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Questa sera, su Cielo, alle 21:20 andrà in onda La vita di Adele. Film del 2013, diretto da Abdellatif Kechiche, con Léa Seydoux e Adèle Exarchopoulos. Si aggiudicò la diciassettesima posizione nella classifica che, un anno fa, dedicammo ai 25 migliori film del XXI secolo. Ripubblichiamo la recensione a firma di Federico Pedroni, che uscì sul sito in occasione dell'uscita nel film nelle sale.


Adèle non ha ancora diciott’anni, va al liceo, vive con i genitori in una casa alla periferia di Lille, ha gli occhi grandi, i capelli ingovernabili, le mani in perenne movimento, la bocca sempre aperta, famelica di cibo e di parole.

Adèle ama senza sapere ancora cos’è l’amore, sperimenta, impara. Incontra Emma, capelli blu e occhi che trapassano, ed esplode di un sentimento finora compresso: bacia, desidera, lecca, freme, scuote.

Adèle cresce e scopre sulla sua pelle che certe cose non sono eterne, che la vita non è favola, che il peso del reale sa ferire e tramortire.

La vita di Adele è un melodramma materialista, conscio del potere politico di un sentimento che si esplicita nelle minuziose descrizioni degli ambienti, delle diverse classi sociali, delle furibonde aggressioni all’uscita di una scuola. La scoperta dell’omosessualità isola l’ipnosi passionale delle amanti, incastonate tra i contorni di un lenzuolo, senza imporre una rivendicazione di genere. Le minuziose scene di sesso scaturiscono dalla volontà di regalare corpi – consumati insaziabili fragili possessivi – a una storia d’amore che altrimenti sarebbe monca.

Kechiche non cede a una reticenza che avrebbe silenziato la febbrile concretezza della passione relegando l’amore di Adèle e Emma a una mistica sentimentale. Spalanca i propri occhi, indaga tra gli ansimi, studia la pelle come se questa potesse parlare (e parla!), riprende il sesso con lo stesso occhio assetato di vero con cui affronta cene, feste, balli, lezioni, ogni forma di terrena socialità. E ci insegna che sono i corpi a ricordare, sono loro la reificazione dell’anima, è attraverso il corpo che trasmettiamo i nostri sommovimenti interiori e impariamo a conoscere e riconoscere.

Insegnare, imparare, conoscere, riconoscere: sono questi i verbi prioritari (non sono un caso le reiterate sequenze di ambiente scolastico) che permettono di cogliere il senso liberatorio di un amore che diventa forma di rivendicazione identitaria.

Kechiche, tunisino trapiantato, dimostra di essere l’autore che meglio ha metabolizzato la cultura borghese della Francia: seziona Marivaux (come in La schivata) e interroga Sartre. Ma Adèle è pura esistenzae quindi non ha bisogno di esistenzialismi. Kechiche non offre una rappresentazione del reale, piuttosto ne pretende una distillazione rendendo ogni scena (ogni dialogo, ogni bacio, ogni ellissi) un concentrato di verità sempre nuova, contundente. Il suo sguardo non è quello dell’entomologo: testimoniare l’esperienza di Adèle ha un carattere epistemologico, perché il bello – kantianamente – è conoscenza, di sé e del mondo.

Ciò che fisicamente traspira da La vita di Adèle è la miscela risultante di amplessi e insegnamenti, aule e camere da letto, ostriche e spaghetti. E ci riguarda, perché, estremizzando Flaubert, Adèle c’est nous. I reiterati primissimi piani dei suoi personaggi (i loro contorni, le increspature, i pori, i respiri, le lacrime e il moccio) sono un solenne incitamento a una visione nuova, capace di squarciare il velo che separa l’oggetto e il soggetto della narrazione e di reinventarci come spettatori e come persone.