Minority Report di Steven Spielberg

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Questa sera su Nove (canale HD 509) alle 21:30 Minority Report di Steven Spielberg, tratto dall'omonimo racconto di Philip K. Dick. In occasione dell'uscita del film Cineforum 420 dedicò uno speciale proprio al rapporto tra l'autore statunitense e il cinema. Vi contribuirono Matteo Bittanti, Francesco Cattaneo, Giorgio Cremonini, Franco La Polla e Alberto Soncini (di cui vi riproponiamo l'articolo, in una versione non integrale).


La fine dello sguardo

Il cinema di fantascienza ci ha da sempre abituato a pellicole dalle forti valenze metaforiche (ad esempio parlare del futuro per raccontare il presente) in virtù di un’autonomia espressiva che garantiva ampi margini di libertà e, nei casi migliori, la possibilità di collaudare soluzioni innovative o, al contempo, divenire terreno di sperimentazione e ricerca. In questo, Minority Report conferma ancora una volta tale tendenza (e dovendone scrivere non mi sottrarrò alla tentazione di leggervi un senso non puramente letterale), ponendosi su almeno due livelli di lettura differenti, in ragione di una versatilità semantica che lo affranca dagli schemi di genere più prevedibili. [...]

Anticipare il futuro

L’impianto narrativo di Minority Report è certo debitore delle atmosfere noir e claustrofobiche del Blade Runner (1982) di R. Scott, da cui recupera, anche sul piano meramente visivo, buona parte dell’immaginario fantascientifico e iconografico. Si pensi all’architettura della città […] o ancora al personaggio di Anderton, che presenta non poche parentele col Rick Deckard scottiano, schizzato in poche ma dense annotazioni biografiche (il fallimento familiare, la solitudine, l’uso di droghe). Dunque uno Spielberg rinnovato, se non nei temi, nelle modalità espositive e scenografiche. [...]

Il film di Spielberg, oltre agli spunti già rievocati nelle numerose analisi proposte (e oltre il necessario rapporto che instaura con la letteratura di P.K. Dick), pone al centro del proprio nucleo tematico due questioni essenziali. Da un lato, la questione morale della scelta di fronte a due alternative di futuro (nella fattispecie uccidere, facendosi giustizia da sé o, potendo conoscere il corso degli eventi, scegliere un percorso temporale “altro”, che contempli il perdono e la rinuncia ad una vendetta personale); dall’altro, la gravità/leggerezza del ricordo, o meglio, l’utopia del ritorno al passato e la persistenza ingannevole delle immagini, [...].

Conoscere il futuro, lo insegna la storia, è sovente fonte di disgrazia. Ma cosa avverrebbe se, conoscendolo, fossimo chiamati a decidere in virtù di un’impossibile nuova occasione di scelta? O, in altre parole, cosa accadrebbe se potessimo conoscere in anticipo l’esito delle nostre azioni? Riusciremmo a modificare un futuro già scritto? Al di là delle apparenze spettacolari, Minority Report si pone interrogativi che, in fondo, ripresentano, sotto nuova forma, uno dei temi centrali della filosofia e della religione: quello del libero arbitrio. Scegliere è sempre una questione morale. […]

Si può sopravvivere ai ricordi?

[…] mi differenzio dai vari interventi rivolti a far risaltare un’altra costante: un futuro che vede l’affermazione di nuove forme autoritarie di controllo basate sulla prevenzione dei crimini, la conseguente eliminazione d’ogni dissenso, la fine della democrazia e l’approdo ad uno stato di polizia tecnocratico. Intendo dire come il film di Spielberg contenga sicuramente riferimenti ad un avvenire prossimo, il 2054, totalitario e dominato da un controllo pervasivo sulle menti, ma anche come tali aspetti non ne rappresentino che un elemento di superficie, forse il meno riuscito, certo il meno rilevante. [...] il secondo nucleo tematico-teorico di Minority Report, il senso che vi si annida più in profondità, e che proietta il film su di un orizzonte ben più inquietante e profetico (rendendolo una tra le migliori opere di Spielberg): la progressiva perdita di attendibilità delle immagini, l’affermazione di uno sguardo incapace di distinguere tra realtà e finzione, presente e passato/futuro. [...] Elemento questo che trova il proprio corrispettivo fisico nella perdita dell’occhio e delle sue facoltà visive, rendendolo, sul piano tematico, cardine dell’intera vicenda (Anderton è costretto a sostituire i propri occhi per non essere identificato). Il taglio buñueliano dell’occhio è qui sostituito da un’operazione chirurgica (non a caso illegale) che ne conserva la carica eversiva e respingente, ribaltandone tuttavia il senso: da rottura estetica surrealista e antiborghese, a sanzione di un’avvenuta fine del predominio dello sguardo. [...] Ciò che si dissolve è proprio la possibilità di conferire alle immagini uno statuto di verosimiglianza: gli echi o déja-vu dei precog ne sono la più ovvia esemplificazione. Per meglio comprendere quale forma assuma tale sentimento di perdita, si ripensi ancora alla scena in cui Anderton rientra solitario in una casa rovinosamente trascurata, ed attiva un dispositivo in grado di riprodurre immagini olografiche a tre dimensioni: il figlio Sean, la moglie, una gita al mare, un’estate passata…, la reminiscenza di un’epoca remota, l’apparire magico e fantasmagorico del tempo trascorso. Il ricordo, secondo Benjamin, «è la reliquia secolarizzata». Qui, il film di Spielberg – aldilà dell’intrinseca bellezza della scena – incontra uno dei maggiori snodi ontologici e teorici connessi al dispositivo cinematografico: l’ossessione per la perdita, l’insopprimibile tentazione di ri-materializzare i ricordi ed arrestare il tempo-che-passa (chi si rammenta l’ostinata risoluzione con cui il Fred Madison di Strade perdute dichiarava di preferire conservare memoria degli eventi senza ricorrere a telecamere o altro?).

Se il cinema è «la morte al lavoro», è anche, in senso paradossalmente opposto, il tentativo estremo di bloccare lo svanire irreparabile di immagini e memoria. Ossessione confermata e ribadita da un film come Strange Days (1995) che ha già raccontato, con altra concretezza, un futuro prossimo venturo in cui l’uomo potrà vivere esperienze virtuali realistiche ed estreme. L’estensione futuristica delle possibilità offerte dalle tecnologie [...] nasconde, sotto un involucro di genere, l’origine del meccanismo cinematografico: la riproduzione successiva di immagini/ memorie, la possibilità di “congelare” il passato ed immagazzinare ciò che è irrimediabilmente perduto. [...]

[...] Può bastare il motivo di una canzone, un’immagine dimenticata, ad innescare una repentina caduta nel vortice insostenibile e fatale della memoria. Dick, com’è noto, è scrittore di fantascienza che, a differenza di altri, meno si concede agli sviluppi tecnologici e puramente fantastici del genere, prediligendo quegli aspetti teorici e ossessivi connessi alla natura umana che ne hanno fatto uno dei creatori più originali e lungimiranti del nostro tempo. In ciò Spielberg ritorna ad incontrare l’autore letterario condividendone presupposti e opzioni sostanziali: raccontare il progressivo slittamento tra realtà empirica e allucinazione, l’avvicendarsi continuo tra reale e immaginario. Come in un film.