Munich di Steven Spielberg

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Questa sera su La7 (canale HD 507) alle 21:10 Munich di Steven Spielberg. Cineforum 452 dedicò al film la copertina e uno speciale, con gli articoli di Franco La Polla, Roberto Chiesi, Luca Malavasi e Anton Giulio Mancino. Abbiamo selezionato per voi il pezzo di Chiesi (purtroppo con dei tagli), ma vi invitiamo, come sempre, a recuperare i restanti.


Senza catarsi

Ai tempi de Lo squalo, il narratore di favole Steven Spielberg raccontò l’epica avventura di tre uomini che affrontavano in barca un terribile mostro marino, uno squalo bianco di dimensioni gargantuesche. Il loro battello veniva distrutto, uno di loro era straziato e mangiato dal Carcharodon carcharias, ma i due sopravvissuti riuscivano a farlo saltare in aria e sulle coste della cittadina balneare ritornava la pace. Trent’anni dopo, Spielberg racconta in Munich un’impresa ispirata a eventi reali, una guerra segreta di attentati, originata dalla tragedia delle Olimpiadi di Monaco del 1972. Ma ne mostra l’implacabile combustione della dimensione epica.

Lo squalo e Munich sono due film agli antipodi, ma in entrambi domina lo spettacolo orrorifico della violenza e della morte. È proprio quando filma la violenza e la morte che Spielberg eccelle come cineasta (non a caso le sequenze di Munich riguardanti la sfera affettiva di Avner e i suoi sentimenti per la famiglia o i compagni di missione, sono di un’assoluta e stucchevole banalità), ma da un film all’altro, nell’arco di trent’anni, si è bruciata l’innocenza delle favole. La lunga scia di morte lasciata dallo squalo si concludeva con la catarsi della sua morte pirotecnica e la vittoria dell’uomo. La catena di omicidi perpetrata degli agenti di Mossad, innesca nuovi eccidi, decima gli “eroi” o li distrugge psicologicamente e non c’è nessuna catarsi. Solo la sconfitta dell’uomo.

Stazioni di un mattatoio

[…] In Munich, è lo sguardo di Avner a ricreare, all’interno della sua immaginazione, le azioni della tragedia di Monaco del settembre 1972, che nelle prime sequenze, viene mostrata solo a frammenti e nei teleschermi. Spielberg riserva alle ultime sequenze del film la ricostruzione integrale del massacro (purtroppo con l’infelicissima idea di alternarle ad un coito disperato di Avner che vede e urla). Ma, all’inizio, grazie alle immagini reali che passano sui teleschermi e allo strazio dei parenti delle vittime, innesca ugualmente un pathos che dovrebbe condurre lo spettatore a solidarizzare, (almeno visceralmente) con la macchina di vendetta tramata da Israele. Per poi rovesciare contro di lui la sua stessa identificazione.

Entrando nella sua vita erotica, assistendo al momento della “chiamata” della Madre (Golda Meir) e della patria (Israele), lo spettatore è infatti condotto a parteggiare con il sacrificio di un eroe cui il suo paese sottrae l’identità civile. Il nemico che Avner ha di fronte è un elenco di uomini da sterminare, un’entità numerica che proprio le esecuzioni omicide convertono dall’astratto al concreto (i bersagli hanno un volto, un’identità, vite, famiglie).

Ogni omicidio perpetrato dai cinque uomini della Mossad, è differenziato nelle forme, i tempi e i luoghi dell’esecuzione, come altrettante varianti di morti violente, in un labirinto di tenebre che, ad ogni falsa uscita, confronta lo sguardo dello spettatore ad un’immagine della morte senza riscatto, senza scopo, senza senso. Avner, che noi guardiamo mentre guarda e agisce da sicario illusosi di essere un eroe, non cede all’automatismo dell’assuefazione, così come Spielberg mette in scena ogni delitto come le stazioni della routine di un mattatoio sempre più abietto. [...]

L’omicidio della sicaria olandese Jeanette è un’eccezione della lista di proscrizione del Mossad. È l’unica vittima della missione la cui identità non appaia già segnata come tale. Anzi, la sua presenza sembra, sulle prime, una digressione inutile, fino a quando (nella bellissima sequenza notturna della scoperta del cadavere dell’inglese Carl) non si scopre che invece siamo sempre all’interno del labirinto, dove si è schiuso un doppio percorso, inverso al primo: ora sono gli emissari di morte ad essere esposti allo stesso gioco. Quando la ragazza viene scoperta, in Olanda, balbetta di volersi vestire, cerca senza fortuna la piccola pistola nel cassetto, poi scopre i seni per tentare un’estrema seduzione. Ma quei tentativi di ritardare l’azione sono inutili: viene colpita da due colpi allo sterno che la farebbero cadere in una lenta agonia se non venisse freddata alla testa. Cadendo morta, rimane completamente discinta e Hans riapre il vestito che Avner aveva pudicamente richiuso sul suo cadavere nudo. La viltà di quest’azione collaterale, che defrauda la vittima perfino della sua dignità corporale, sembra illuminare, a ritroso, l’aberrazione dell’intera missione intrapresa. Spielberg imprime alla dinamica di questo assassinio le incertezze e gli impacci che rendono penosa la realtà: i gesti goffi e le parole confuse della donna accompagnano l’umiliazione di una morte violenta, che non avviene nel fuori campo come ne Lo squalo, ma alla luce del sole e in un interno idilliaco con splendida vista su Amsterdam. Dopo che il sangue inizia a zampillare dai fori aperti nella carne, la mdp di Spielberg si mantiene a distanza dal cadavere, ma non nasconde la visione di quel corpo lasciato come una massa inarticolata, come abbandonato sul bancone di una macelleria.