Prisoners di Denis Villeneuve

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Questa sera alle 21, su Iris, Prisoners di Denis Villeneuve, forse il miglior film del regista canadese fra quelli girati negli Stati Uniti (aspettando Blade Runner 2049...). Ripubblichiamo una frammento della recensione che Giampiero Frasca scrisse su Cineforum 530 (dicembre 2013).


Nell’involucro esteriore è un thriller. Apparentemente una lotta contro il tempo per cercare di scovare due bambine rapite e recluse in un luogo indefinito. In realtà il time lock, il rigoroso conto alla rovescia da non oltrepassare, si attiva soltanto genericamente, limitandosi all’evocazione estemporanea di una statistica urlata disperatamente dal padre protagonista, alla presenza dell’impotente detective Loki, circa le possibilità dimezzate di ritrovare i bambini dopo una settimana dalla loro scomparsa. Invece del limite temporale, un’ansia generalizzata, che non si nutre neanche di un montaggio alternato, di nessun

inserto che mostri le due bimbe in pericolo o in trepidante attesa che il loro destino si compia. Una tensione che si alimenta da un vuoto assoluto, dalla mancanza di riferimenti concreti, dall’incertezza sulla pista da seguire, da un cielo plumbeo, spesso furiosamente piovoso, valorizzato dalla fotografia esangue di Roger Deakins.

Un thriller anomalo, dall’intreccio denso, fatto di snodi narrativi e colpi di scena frequenti, da cui è totalmente cancellato l’obiettivo della febbrile ricerca, almeno fino al complicato ritrovamento finale. Pur avendone le peculiarità, infatti, Prisoners presenta una declinazione particolare del genere, ripiegata verso il suo interno, in uno scavo intimo sulla conseguenza delle colpe e delle responsabilità, più che essere volta al vigoroso scioglimento finale. Sotto questo aspetto, il film, benché confezionato in un riconoscibile impianto che assecondi i gusti del mercato americano, è pienamente coerente con i lavori precedenti di Denis Villeneuve, la cui tendenza è sempre stata d’indagare sugli effetti devastanti e incontrollati dovuti all’insorgenza improvvisa e immotivata del Male. Che si tratti di uno studente Columbine-style che fa strage all’università (Polytechnique) o delle scorie di una logorante guerra di religione con risonanze edipico-vessatorie (La donna che canta).

In Prisoners il fake-thriller è funzionale a una sofferta riflessione sul senso di colpa e solleva una precisa (e annosa) questione morale: è lecito utilizzare la tortura per ricavare informazioni decisive alla salvezza di una vittima innocente? E soprattutto, è legittima una regressione allo stato primitivo quando la legge alla base della società pare non tutelare adeguatamente i propri cittadini?

[…] Prisoners incentiva continuamente il dubbio circa la questione etica che solleva, andando oltre le convinzioni personali di ogni singolo spettatore (giustizialisti o garantisti?) per forzare (immoralmente?) la lucidità di giudizio di ognuno attraverso l’identificazione con il personaggio e la precisa disposizione delle sequenze. Un padre disperato, amante protettivo dei suoi affetti, raccoglierebbe le simpatie del pubblico anche se non fosse interpretato dal divo di Wolverine, una bambina bionda tutta mossette e sorrisoni rappresenta inevitabilmente una sorta di imperativo empatico categorico contro il quale si può andare solo con il rischio di considerarsi affetti da inguaribile perversione. Secondo questa precisa prospettiva, Prisoners è un film manipolatorio del suo pubblico, ancora più infido perché, da un lato, prospetta il dubbio come categoria interpretativa, mentre, dall’altro, riassesta i rivoli di perplessità che ha generato attraverso la struttura sequenziale adottata.