Prometheus di Ridley Scott

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Questa sera su Rai 2 alle 23:15 andrà in onda Prometheus il film con cui Ridley Scott è tornato alle atmosfere del suo primo Alien. La recensione che riproponiamo è a firma di Emilio Cozzi ed è apparsa su Cineforum 518 dell'ottobre 2012.


Esterno giorno: a bordo cascata un culturista albino alto tre metri ingoia un liquame nero. Su di lui levita l’astronave madre, arrivata fin lì in una panoramica cosmogonica à la Terrence Malick (o «National Geographic»), giusto per chiarire che si è dalle parti della Vita, l’Universo e tutto quanto. Ma si lasci perdere, ché dell’astronave chissenefrega – lascerà perdere pure il film, spesso e volentieri – e si torni al Mastro Lindo galattico: ingollata la schifezza, il tizio si decompone e crolla in acqua, con tutto il DNA sfilacciato – sulla questione sfilacciamento fa luce una scena/didascalia molto dettagliata e dagli effetti molto speciali, come durante il film succederà spesso e volentieri.

Com’è come non è, l’evento genera la vita sulla Terra. O forse no? Pure il dubbio tornerà nel film spesso e volentieri. A cominciare dalla seconda sequenza, dedicata alla scoperta nel 2089 di fantomatici graffiti preistorici attraverso la cui invariabilità spazio-temporale due scienziati si sentono invitati su una galassia lontana lontana, supposta patria degli Ingegneri, la specie cui l’Uomo potrebbe dovere le origini: aka il Mastro Lindo dell’inizio. O forse no? L’incertezza, anche qui lecita – e c’è pure qualcuno che la fa notare nel film, ma è fra i primi morti ammazzati – non scoraggia affatto il patron della Weyland Corporation, pronto a imbastire una missione spaziale per scoprire le Risposte sulla Vita, l’Universo e tutto quanto.

Che l’astronave della speranza si chiami Prometheus, guarda un po’, e che l’androide David – bel nome biblico – discetti di filosofia e linguistica fra un Lawrence d’Arabia e un battibecco te(le)ologico, non sono i soli elementi che giustificano la qui diffusa ironia. Per argomentare quella si dovrebbero altresì elencare le carambole genetiche con cui si vorrebbe spiegato il legame con Alien, la manciata di personaggi inutili e i colpi di teatro di cui un elenco non esaustivo dovrebbe dare l’idea: 1) la tempesta di silicio; 2) il patron nascosto; 3) la prole segreta del patron; 4) gli astronauti zombie, o mutanti; 5) la gravidanza cosmica; 6) il suicidio di massa; 7) il papà di Alien.

Per farla rapida basterebbe menzionare la sceneggiatura, vittima di quella sindrome virulenta che affastella quesiti e snodi senza gestirli in maniera, se non coerente, quantomeno leggibile. Sindrome che per sintesi battezzeremo “Lost writing”, qui con un emissario ufficiale in Damon Lindelof.

In tanto ciarpame, fra un Lovercraft buttato lì e due rimandi crossmediali più interessanti di tutto il film, la regia di Scott ribadisce la nota e, in questo caso, antitetica disciplina. L’occhio del cineasta è rigoroso ma disponibile alla meraviglia; fermo a rispettare l’abisso di sensi che sempre intravede più in là. Quello che da molti viene indicato come uno sguardo algido, par più la prudenza di chi, ben capace di stupirsi, procede attento. Un atteggiamento che molti personaggi della filmografia del regista tradiscono, quasi a volerne incarnare il carattere virgineo e aperto al mondo. Foss’anche zeppo di incubi gigeriani e “lavori in pelle”.

Fra le troppe, la debolezza più evidente di Prometheus consiste proprio nell’aver orientato una poetica, basata sull’incanto di chi si pone domande sempre nuove, verso una qualche sentenza; nell’illusione che il cinema, più che chiedere, risponda. Avremmo potuto scrivere molto proprio sulla contrapposizione e(ste)tica fra le didascalie a prova di stolto e i troppi nessi logico-narrativi dimenticati fuori campo. Quasi che la contraddizione, voluta, fosse una metafora dell’incomprensibilità di quanto ci circonda, precede e segue. Come a ribadire che l’Uomo, pur ultratecnologico, poco possa dinnanzi al mistero della vita. Avremmo potuto scriverne, sì, ma nell’opera questa dialettica manca. O, se c’è, è raffazzonata. A trent’anni dalle angosce di Roy Batty, Ridley Scott torna a casa e accontenta i fan sci-fi di mezzo mondo. Come si confà(ceva) al demiurgo di Blade Runner, si punta alle domande ultime. Dall’inizio alla fine Prometheus non fa che chiedersi una cosa sola: «Dio esiste?». E dopo centoventiquattro minuti di bagordi genetici, struggimenti filosofici e buchi narrativi tali da ingoiarsi astronavi madre, risponde: «Boh?!». O forse sì.