Quel che resta del giorno di James Ivory

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Questa sera sul canale del digitale terrestre Cine Sony, alle 21, Quel che resta del giorno di James Ivory. Ripubblichiamo alcuni passaggi della recensione che il grande Franco La Polla scrisse sul numero 332 di Cineforum del marzo 1994.


È normale che il rapporto fra servo e padrone sia una delle costanti della letteratura britannica: da Calibano che serve Prospero (peraltro accudito anche da un super maggiordomo come Ariele) fino al Novecento di narratori come il Robin Naugham di Il servo, lo Hartley di L'età incerta e in parte la Ivy Compton-Burnett di Servo e serva (ma ne verrebbero da citare tanti altri, da D.H. Lawrence sino a Henry Green e, perché no?, financo il Joyce Cary di Mr. Johnson) la prima nazione democratica dell'Occidente non poteva non nutrire una riflessione secolare su questo tema.

Nipponico di nascita Kazuo Ishiguro si inserisce m quest'alveo con Quel che resta del giorno. E un'operazione importante, così importante che, nonostante alcuni ritocchi apportati a l romanzo la sceneggiatrice Ruth Prawer Jhabvala – abituale collaboratrice di James Ivory – lo spirito di essa è rimasto intatto nella pellicola, per molti versi (e per quanto è possibile esserlo) "fedele" traduzione del romanzo per il grande schermo.

Bene, ma che cosa è dunque Quel che resta del giorno? Ci si consenta di dire prima di tutto quel che non è: non è, a dispetto di quel che ne ha scritto qualche influente giornale nostrano, «la storia di un maggiordomo diviso tra la fedeltà al suo padrone e il sentimento per una donna». Questo è puro cascame melodrammatico, di quelli che per decenni ci hanno impedito non solo di saper leggere e riconoscere film importanti, ma anche di farne. La storia d'amore – o per meglio dire, l'assenza di essa – è completamente subordinata non tanto a un altro rapporto (quello, appunto, fra il maggiordomo e il suo padrone), ma a un'etica professionale, a una concezione del proprio lavoro talmente assorbente e onnivora da diventare l'unica realtà di chi la vive l'unico sistema di riferimento sul quale misurare, sempre parecchi gradi più in basso (e così in basso da non vivere per questo alcun attrito e problema) ogni qualsivoglia accadimento di carattere personale.

Ora, la questione impostata identicamente da libro e film è: la dedizione al proprio lavoro, totale e assoluta, esime forse dalla formazione di un proprio personale pensiero in merito a ciò che accade attorno a noi fosse anche nel nostro stesso luogo di lavoro? E in questo caso non si tratterebbe forse di un alibi che ci libererebbe da ogni compromissione e responsabilità davanti al sistema di valori – quale che sia – che ci chiama in causa?

Il punto è importante perché il maggiordomo Stevens non è semplicemente l'ammirevole capo dei servizi nella villa del conte Darlington, non è soltanto un impeccabile servitore devoto all'etichetta e al rituale delle classi superiori. No, ha rinunciato alla propria vita (intendendo con questo idee, affetti, privatezza, ma soprattutto l'esercizio dell'intelligenza e del giudizio), delegando al proprio padrone tutto quello che esulasse da ciò che gli era richiesto in quanto servitore. In altre parole, ha scelto di far coincidere la propria personalità e individualità con la propria funzione, il proprio ruolo, regredendo ad una posizione pre-cartesiana fondata su un principio di dedizione di marca medievale.

[…] Il film di lvory è diverso e insieme uguale al romando di Ishiguro: poiché, com'è inevitabile per un film che sia davvero cinema, dice le stesse cose passando per la strada della visualità, dell'immagine, della performance.
Ma tutto questo è soltanto la premessa, per così dire, dell'opera. Quel che resta del giorno non è tanto uno studio dell'attaccamento a un'idea "alta" di lavoro servile, quanto una riflessione su che cosa e quanto questa idea cancella della nostra responsabilità verso il mondo e la Storia.

[…] Del resto anche buona parte dell'opera di Ivory fin dal superbo Autobiography of a Princess (1975) ha mostrato il fascino esercitato su di lui dal rapporto servo/padrone, inteso tuttavia non come esercizio sadomasochistico nel quale le parti possono facilmente venire ribaltate rivelando la cattiva coscienza di chi detiene il potere (caso esemplare: il libro di Robin Maugham e il film trattone da Joseph Losey), ma come riflessione sull'autorità la quale, lungi dall'essere assoluta, è sempre modello che a qualsiasi titolo entra a far parte della biografia individuale (venature in questo senso sono rintracciabili anche in Calore e polvere). Ed è – sia detto fra parentesi – molto interessante che nel cinema di Ivory i personaggi immuni da certi pericoli siano di norma americani (o, in un contesto americano, più spontanei, istintivi meridionali, come in I bostoniani). Ivory abbraccia insomma la posizione socio-ideologica del primo Henry James (quello di Daisy Miller, per intenderci), ma nei fatti continua a denunciare la fatale attrazione del concetto non democratico (cioè a dire, non americano) d'autorità elaborato in tempi passati dalla cultura europea e probabilmente più radicato in essa di guanto normalmente non si creda.