Ritorno al futuro di Robert Zemeckis

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Ritorno al futuro, il primo episodio della celebre serie firmata da Robert Zemeckis, sarà trasmesso questa sera, sabato 8 luglio, alle 21.20 su Italia 1. Il film è ormai un classico moderno su cui, soprattutto a posteriori, si è detto e scritto di tutto. È interessante, allora, andare a rileggere ciò che a suo tempo, nel 1990, all'uscita del terzo e ultimo episodio della serie, ne scrisse Mario Sesti, allora critico di Cineforum. Ne pubblichiamo un estratto dal n. 299 di Cineforum (per acquistare il numero in pdf segui il link)  


Penso che la saga di Ritorno al futuro non vada confusa nell'abisso seriate che dilaga in tutto il cinema americano, anzi sono convinto che su questa produzione-ideazione di Spielberg e Zemeckis sia opportuno riflettere approfonditamente.

Non solo perché gioca con i paradossi logici e fisici del tempo con una complessa disinvoltura come probabilmente il cinema non ha mai fatto, non solo perché rappresenta un successo di massa, e non solo perché, più delle altre, vecchie e nuove (da Il padrino a Gremlins), è, per così dire, una serie natural (avendo per oggetto esplicito il tempo, sembra impossibile non immaginarne uno sviluppo formale e narrativo in più episodi), ma perché mi sembra irriducibilmente esemplare, straordinariamente compiuta, una sorta di inspessimento su sé stesso del tessuto dell'immaginario in una configurazione che mentre sperimenta inedite composizioni di parti già note (la commedia, la fantascienza, la ripetizione seriale) fissa, in modo che sarà impossibile ignorare, nuove – realmente nuove – dimensionalità della finzione cinematografica.

Per certi versi le uniche due vere tendenze del cinema americano sono Zemeckis-Spielberg e Lynch. Forse, davvero, sono le due ipotesi possibili di cinema sperimentale alle soglie del duemila. Il secondo, anche se pochi se ne sono accorti sul serio, sperimenta nuovi mondi di finzione, come dice lui, e così facendo manda in frantumi qualsiasi tradizionale struttura tonale del cinema (da qui l'imbarazzo di pubblico e critica che scambia la sperimentazione per parodia, la ricerca formale per effetto). Tra i mondi dei film di Lynch e quello reale c'è soltanto una certa contiguità logica (lo spazio, il tempo) così come usa il suo cinema e le forme del cinema (i generi, le tipologie narrative, dl emozioni: il mélo, la comicità, l’horror) c'è un'ovvia parentela di linguaggi, ma non molto di più. Non è un caso che l'unico nume esplicito di questo cinema che racconta di atrocità impensabili senza mostrarle, che mostra senza sgomento la propria abissale paura del mondo, del corpo, della tecnologia, sia Fellini, l'unico che con il suo cinema possa dare al senso del mistero delle cose che Lynch persegue religiosamente, un significato non astratto o banale.

Zemeckis e Spielberg invece (diciamo, meno ambiguamente, Ritorno al futuro), non danno il minimo segnale di avvertire tale mistero pur affrontandone frontalmente il più ovvio, quello del tempo. A qualcuno potrebbe sembrare eccessivo attribuirgli la consapevolezza di una tale intenzione: non è il viaggio nel tempo un escamotage per mettere letteralmente in scena una vicenda edipica che si capovolge genialmente nel celebre finale (il figlio non vuole usurpare il padre, bensì deve addirittura aiutarlo a diventare tale), secondo quella capacità di affrontare nella maniera più semplice (ma nello stesso tempo simbolicamente più potente) problemi di straordinaria complessità e profondità, di cui il cinema americano è il più efficace rappresentante?

Se tale è l'interpretazione del primo episodio (e certo si tratta di una delle più visibili letture), il secondo invece, al di là della evidente continuità narrativa, si produce a partire da uno scarto sorprendente in cui il tempo che nel primo si mostrava percorribile e aperto come uno spazio, si rivela labirintico e cunicolare, esposto ad aberrazioni e folli moltiplicazioni. È a mio avviso l'episodio teoricamente più impegnativo ma anche il più sorprendente da un punto di vista che fa di Ritorno al futuro un metodo e non soltanto una saga fortunata o una trilogia d'autore, entrambe definizioni che stanno troppo strette o larghe e che comunque non spiegano o illuminano nulla.