Shutter Island di Martin Scorsese

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Questa sera su Rete4 alle 21:15 Shutter Island di Martin Scorsese. Il quarto film del regista statunitense che vede come protagonista Leonardo DiCaprio (il successivo sarà The Wolf of Wall Street). Un'opera che rimanda alla tradizione noir dei grandi registi del passato, da Lang a Preminger, passando per Hitchcock. Ne scriveva Emanuela Martini su Cineforum 493.


Le catene della colpa

Nelle interviste e nelle conferenze stampa, Martin Scorsese ha citato ampiamente le sue fonti d’ispirazione narrativa e visiva per Shutter Island: la Rko di Val Lewton e Jacques Tourneur, i noir degli anni Quaranta e Cinquanta di Fritz Lang e Samuel Fuller, La donna che visse due volte di Hitchcock, Vertigine di Preminger e Le catene della colpa di Tourneur (tre film che il regista ha fatto vedere alla troupe prima dell’inizio delle riprese). Scorsese conosce bene quello di cui sta parlando; da raffinato e coltissimo cinéphile qual è, non sbaglia un riferimento, una citazione, una suggestione. Affastellando gli spunti, Shutter Island ricorda Il corridoio della paura di Fuller, per l’ambientazione in un’istituzione psichiatrica e l’ambivalenza della figura del protagonista, per la secca durezza di certe scene e per la sensazione di insicurezza paranoica che pervade l’atmosfera, nella storia di Edward Daniels e nella nostra epoca, come negli anni Cinquanta di Fuller e del maccarthismo; ricorda La donna che visse due volte (esplicitamente, nell’immagine ricorrente e torreggiante del faro, nell’ascesa di DiCaprio lungo la scala a chiocciola che porta in cima all’edificio, nel momento rivelatore del film) nel tema della schizofrenia e della doppia personalità e anche, sottilmente, nel mal di mare di cui soffre l’agente Daniels, che scopriamo immediatamente e che è collegato (acqua) a un trauma passato, esattamente come le vertigini (aria) che nel film di Hitchcock tormentano James Stewart, da quando non è riuscito a salvare un suo collega da un fatale salto nel vuoto; ricorda, forse, Vertigine di Preminger, per lo scarto netto tra la prima e la seconda parte del film, con il protagonista che, da tutore della legge inviato sull’isola per un’indagine, si trasforma in possibile ricoverato schizofrenico (come Laura, da vittima, diventa, con la sua inaspettata ricomparsa, una potenziale sospetta di omicidio) e, soprattutto, per l’elegante esattezza di una ricostruzione ambientale, di un impasto cromatico, di un’atmosfera che rimandano alla raffinata precisione della regia di Otto Preminger.[...]

Infine, Shutter Island rimanda a La donna del ritratto, Strada scarlatta, Dietro la porta chiusa e altri noir americani di Lang per i frequenti ribaltamenti narrativi, per l’imprecisione dei confini tra realtà, sogno, ricordo e incubo e la conseguente inafferrabilità delle fisionomie dei protagonisti e per i loro frequenti slittamenti tra “colpevolezza” e “innocenza”, tra “sanità” e “follia”, e soprattutto per l’incombenza fisica, percettibile, del senso di colpa.[...]

Il cielo è plumbeo; ancora prima dello scatenarsi dell’uragano che blocca gli agenti sull’isola, le nuvole pesano sull’orizzonte; la fotografia, nitida e grigiastra, di Robert Richardson ci fa percepire che siamo all’interno di un universo malato, prima dell’arrivo all’Ashecliffe Hospital, esattamente come i neri profondi e i grigi offuscati del noir classico raccontavano un mondo affogato nell’angoscia e nella perdita dell’identità. La musica che sottolinea l’avvicinamento all’isola ci trasporta dritti in un incubo; il supervisore musicale Robbie Robertson, che lavora con Scorsese da anni, ha assemblato brani di Penderecki, Ingram Marshall, John Cage, Ligeti (in particolare, «Lontano», già utilizzato da Kubrick in Shining) e altri, costruendo un universo sonoro ossessivo, talvolta più minaccioso ed efficace delle immagini stesse. I primi venti, trenta minuti di Shutter Island sono uno straordinario pezzo di cinema dell’ambiguità, un esempio di come il genere possa ancora oggi convogliare una densità di senso che non prescinde dal rispetto dei codici e della coerenza narrativa. Come dire: Scorsese, quando si mette a confezionare “fette di torta” (come Hitchcock), lo fa con la maestria e la profondità di significati del cinema d’autore, raccontandoci comunque qualcosa che ci riguarda direttamente (una volontà, quest’ultima, che si manifesta fin dalla scelta del soggetto). Ben venga perciò un thriller sulla follia, l’identità, la paranoia di una Nazione che assume la forma narrativa di un’indagine poliziesca, la schizofrenia di un individuo che si riflette in un’oscura macchinazione. I problemi di Shutter Island non sono inerenti la sua appartenenza alla produzione “alimentare” di Scorsese (comunque altissima), ma se mai, al contrario, a un eccesso di “senso” cui il regista sembra indulgere (allungando piuttosto che sintetizzando) quasi a voler rivendicare il suo essere “autore”.

Cape Fear è naturalmente il primo titolo di Scorsese che viene in mente, pensando alle sue presunte regie “su commissione”[...]. Tutto sommato, l’adattamento di «L’isola della paura» di Dennis Lehane (che non ho letto) offriva la possibilità di adombrare temi analoghi, all’interno di una storia ad alta valenza spettacolare ed emotiva. Personalmente, non credo che Lehane sia uno dei grandi della narrativa thriller-noir contemporanea, anche se dal suo «Mystic River» Clint Eastwood ha tratto un capolavoro dai toni shakespeariani, un affresco contemporaneo di agghiacciante disperazione (ma il film è molto più bello, compatto e coerente del romanzo). Come Eastwood ha trasformato un thriller in una grande tragedia sociale ed esistenziale, così ci si poteva aspettare da Scorsese, con la sua padronanza del genere, un noir nevrotico ed essenziale sulla fine della civiltà e del Mito, sulla scissione della personalità moderna, sulla paura diventata sentimento dominante dell’Occidente, sull’incapacità attuale di assumere una posizione morale, e perciò di rivendicare un’identità strutturata. Tutto questo, evidentemente, traspare dal film; ma il difetto di Shutter Island è proprio qui: più che “trasparire”, tutto il senso che dovrebbe costituire il sottotesto del thriller, a un certo punto comincia a travolgere la narrazione. La compattezza, la coerenza del genere, il piacere della fetta di torta si perdono nell’esplicita volontà dell’autore di raccontarci la sua visione del mondo. I ribaltamenti e le spiegazioni cominciano ad accavallarsi, come per chiarire che realtà e follia sono indistinguibili; le parti oniriche peccano a volte di effettismi alla Lynch (che sono perfetti per Lynch, ma che in un contesto noir di matrice classica sembrano una forzatura d’autore); la metafora rischia di sovrapporsi al plot. Il problema di Shutter Island sta proprio nel suo negarsi, in parte, al cinema di genere, nell’indulgere in visioni del mondo e della società che finiscono per renderlo farraginoso.