Sicario di Denis Villeneuve

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Dopo la recente uscita di Blade Runner 2049, facciamo un salto nel passato di Denis Villeneuve. Questa sera Rai 3 (canale HD 503) alle 21:15 trasmette il terzo dei film statunitensi del regista canadese, Sicario. Abbiamo recuperato quanto scrisse Giampiero Frasca su Cineforum 549. Disponibile qui anche la recensione di Leonardo Gandini.

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Il confine torna a essere una questione morale. Dopo essere stato un limite osmotico in cui il Bene e il Male, la verità e la menzogna, la legalità e l’abuso si confondevano reciprocamente in L’infernale Quinlan e aver rappresentato fin troppo spesso una semplice demarcazione oltre la quale la vita di un uomo perdeva qualunque valore (ad esempio, Frontiera di Tony Richardson, il sottovalutato Stella solitaria di John Sayles o anche il recente e misconosciuto Frontera di Michael Berry), il confine con il Messico assume nuovamente su di sé tutto il suo valore allegorico e i suoi risvolti etici. Denis Villeneuve, québécois in trasferta negli Stati Uniti ormai da tre film, declina la questione veicolando la sceneggiatura dell’attore televisivo Taylor Sheridan (Sons of Anarchy) sulle sue esigenze autoriali, giocando, ancora una volta, sul ribaltamento delle prospettive e sulla sottile membrana che separa la legittimità dall’arbitrio, così come già fu per il Quinlan di Welles. […] Sì, perché lo scontro messo in scena in Sicario è quello, inconciliabile, tra idealismo e realismo, che nel film prende la forma della differenza esistente tra protocollo e brutale pragmatismo. [...]

Nell’affrontare questa tesa quadratura di compromessi incrociati (in base ai quali per le agenzie interdipartimentali è preferibile il monopolio dei narcotrafficanti di Medellín alla parcellizzazione dei centri di smercio nel Centro America), Villeneuve non si fa tentare da una facile (e ovvia) spettacolarizzazione della violenza, preferendo una più attenta funzionalità e scandendo i momenti di maggiore tensione sui mutamenti di soggettività dei personaggi coinvolti. Apparentemente, Villeneuve sottrae elementi fondanti che in un qualunque action sarebbero indispensabili (ad esempio l’incedere di Alejandro/Del Toro verso la stanza in cui è legato il boss con un boccione d’acqua, il cui utilizzo è lasciato all’immaginazione successiva dello spettatore), in realtà modula lo sviluppo del racconto bilanciandolo su due figure focalizzanti (Emily Blunt e Del Toro stesso), sfruttando la prima per delineare compiutamente quella più misteriosa, la seconda. Attraverso questa modalità di transizione, Villeneuve replica metanarrativamente ciò che nel film l’agenzia interdipartimentale fa con Emily Blunt: ne sfrutta la presenza (come agente federale) per legittimare il proprio operato (sul suolo estero). Il film conduce il pubblico lungo un percorso di lenta e progressiva conoscenza che al suo inizio è ingannatore, perché ancorato a un personaggio (Kate/Emily Blunt) utilizzato soltanto come pretesto di messa a fuoco di una più vasta situazione che quello stesso personaggio (e il pubblico con lui) ancora non può comprendere. E non a caso, l’Alejandro di Benicio Del Toro, quasi in veste di guida occulta del racconto, avvisa inizialmente Kate e il pubblico con un ancora impenetrabile: «Nothing will make sense to your American ears. But in the end, you will understand».

Il lento percorso di conoscenza proposto dal regista utilizza quattro fasi, coincidenti con le quattro grandi sequenze di tensione del film, le quali, come detto, sono realizzate con modalità eccentriche, non rivolte direttamente all’azione, quanto alla sua percezione. La prima sequenza (dopo il ritrovamento dei cadaveri in decomposizione nascosti nelle pareti) è propedeutica [...].

Il fulcro dislocato della tensione fornisce il metro di lettura, l’azione è solo percepita, la Blunt è figura orientante, così come pare confermare il secondo momento di cui si serve Villeneuve, lo scontro a fuoco in coda alla frontiera contro gli sgherri del boss catturato dalla task force interdipartimentale. Le armi spianate, l’avvistamento delle possibili minacce nelle altre auto in coda, i messaggi incrociati tra una macchina e l’altra per mettersi vicendevolmente in guardia, l’approccio armato nei confronti degli avversari, la sparatoria e, infine, l’uomo ucciso dalla Blunt per autodifesa. Tutto registrato integralmente, questa volta, tutto visto dalla prospettiva della donna, presente sul luogo e – alla fine della scena – partecipe dell’azione. Si assiste a questo punto a un lungo intervallo prima della terza fase, in cui la narrazione fornisce gli spunti e alcuni elementi necessari a una comprensione ancora nebulosa per il personaggio orientante e per lo spettatore che ne condivide la fallace prospettiva. Tra gli elementi forniti acquista però progressivamente rilevanza il mistero incarnato dall’Alejandro interpretato da Benicio Del Toro, di cui tuttavia non si afferra la reale natura (laconico, ex pubblico ministero, quasi premuroso con la Blunt ma brutale con i criminali), una sorta di fantasma del passato ritratto con schizzi impressionisti che s’impadronisce della scena e diventa centrale nell’economia narrativa.

Il momento di passaggio è nella terza fase, quella in cui la squadra capeggiata da Josh Brolin entra nel tunnel costruito dai narcotrafficanti colpendo ogni sagoma in movimento: la macchina da presa indugia sulle posizioni di retrovia tenute dalla Blunt, che può solo supporre (e far supporre) dal rumore degli spari le fasi decisive di un’azione lontana, alla quale appare estranea. La quarta fase, infatti, interessa solo più l’oscuro Alejandro: accantonata la Blunt, la cui funzione (nella sua duplice valenza, nell’azione e nelle modalità di ricezione) è ormai marginale, Del Toro accompagna il film verso lo scioglimento dell’intreccio nel cruento faccia a faccia con l’introvabile manovratore del narcotraffico, Alarcon. L’aspro confronto finale tra i due protagonisti è sì la conferma di un avvenuto passaggio di consegne narrativo, ma anche e soprattutto l’attestazione di un’inevitabile sostituzione, a causa della quale la speranza di giustizia lascia il posto alla spiccia efficienza, il protocollo è sacrificato all’interesse operativo e l’idealismo si sgretola in minutissimi frammenti che s’intessono in una fitta trama di diffuso terrore. Non si tratta più di un confine ma di una dimensione parallela in cui gli Alejandro vivificano come lupi famelici e le Kate Macer si limitano a osservare senza comprendere completamente le regole d’ingaggio.