The Tree of Life di Terrence Malick

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Questa sera su Rai5 (canale 23) alle 23:05 il film vincitore della Palma d'Oro a Cannes 2011, The Tree of Life di Terrence Malick. Noi di Cineforum lo abbiamo posizionato al 19esimo posto tra i migliori 25 film del XXI secolo. Leggiamo alcuni estratti di Emiliano Morreale su Cineforum 505 (nel quale si trova uno speciale dedicato al film).


Il Tempo e il Mélo

The Tree of Life sembra ripercorrere e ri-raccontare la storia dell’umanità, fondendola provocatoriamente in una famiglia americana media, come se le loro piccole grandi tragedie ripercorressero quelle dell’intero genere umano, in un processo di ontogenesi e filogenesi, come i primi passi del bambino ripercorrono da sempre quelli dell’intera umanità in un vertiginoso riepilogo.

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Malick teorizza esplicitamente, fin dai dialoghi, l’opposizione tra natura e grazia: ma questa tensione riusciva nei suoi capolavori precedenti a essere incanalata nel pieno della Storia, affrontando la miseria e la guerra e confrontandosi anche con la loro riduzione a genere da parte del cinema. Qui l’interrogativo dostoevskiano, più metafisico che storico («Perché muoiono i bambini?», o i figli) si fa perno della visione, punto di partenza. È il lutto il punto di partenza, ma poi subito la Storia si ritira. In luogo di essa, Malick sembra qui affrontare direttamente l’immagine del Tempo (ossia dell’attimo fuggente e dell’eternità). I suoi anni Cinquanta sono un imperfetto, non un passato remoto. Un tempo da romance, non da novel. E in questo modo, il suo male weepie arriva al Materno, alla madre dai capelli rossi che alla fine riunirà forse Natura e Grazia. Il Big Bang, se ci facciamo caso, è visto in soggettiva dalla madre, anzi potrebbe essere un suo racconto ai figli: «Ci racconti una storia di prima che eravamo nati?», chiede il bambino, e il «non eravamo nati» potrebbe allora riferirsi all’intero genere umano.

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La sfida del regista è quella di unire ambizione filosofica e massimalismo visivo: al massimo di ambizione teorica deve corrispondere il massimo di pathos visivo. E, contemporaneamente, questi due massimalismi si incarnano in un termine medio minimal, quello della famiglia nucleare e della little town americana: l’albero della vita è quello che sta in giardino, il giardino dell’Eden è quello dove si fanno i barbecue. Visivamente, poi, quel giardino è lo stesso in cui è nato il Mondo, alla lettera: i luoghi sono gli stessi, gli alberi inquadrati nello stesso modo, e guardando la natura per qualche istante non sappiamo in che era geologica ci troviamo (e uno dei bambini troverà in giardino un osso di dinosauro).

Lo stordimento che procura il film è anche una conseguenza del suo massimalismo, del suo candore e della sua hybris, culturale più che filosofica. Giacché ciò che di intenso comunica The Tree of Life non è qualche concetto filosofico, ma un sentimento visivo. È la paura che abita l’infanzia, la velocità con cui il tempo fugge, e la stessa straziante vanità degli affetti. Questo, nel film, è simboleggiato dall’incastro vertiginoso di due figure stilistiche come il jump-cut e il continuo movimento della steadycam, come se l’impossibilità di vedere tutto si traducesse in un volo affannoso, e l’impossibilità di conservare tutto diventasse lo spezzettamento del volo in sue frazioni. Gli anni passano veloci, i ricordi che restano sono casuali, privi di filo. E forse anche banali, simili alle emozioni a buon mercato della pubblicità, della musica più risaputa: ma questo Malick non lo dice, anzi forse potrebbe essere il catastrofico non-detto del suo ordito poetico. Il problema del kitsch si propone con forza rovinosa in un film tutto in stile sublime dalla prima inquadratura all’ultima. A tratti Malick sembra quasi essere consapevole di muoversi sul confine sottilissimo tra sublime e trash. Le musiche del film in fondo provengono dalla discoteca, un po’ Reader’s Digest, del musicista fallito Brad Pitt: la «Moldava» di Smetana, la «Toccata e fuga in re minore», le sinfonie di Brahms, i «Quadri di un’esposizione», la «Sinfonia n. 1» di Mahler… Ma in fondo la poesia dell’ordinario è pur sempre vera poesia, attraverso il backyard passa davvero il sentiero per l’Eden.

L’oscillazione fra sublime e trash di Malick è la stessa della sua visione del mondo, le cui inquietudini orrorifiche, quasi lynchiane a tratti (fino al ricalco: nei clown, nella figura del gigante in corridoio), vengono riassorbite da un desiderio di apocatastasi, di assoluzione finale. Una volta tirate le fila del mondo caduto, del timore e del tremore, si finisce su una spiaggia che è quella stessa dei dinosauri, dove i vivi e i morti, il passato e il presente si riconciliano, e anche la qualità visiva del film ha una flessione, tra simbolismi facili (la porta nel deserto) e grandangoli. Malick spinge il cinema ai propri limiti, ai propri paradossi, e ci imbarazza. L’immagine della felicità domestica è inevitabilmente uguale a quella di una pubblicità per pannolini o di una compagnia di assicurazioni? La rappresentazione dell’Aldilà è inevitabilmente sottoculturale?

Questa domanda va forse insieme a un’altra, decisiva, e che il film (ancora una volta) insieme rimuove e rende ineludibile: chi guarda? Il film di volta in volta vede e sogna con gli occhi della madre, e soprattutto con quelli di Sean Penn oggi. Vede, potremmo dire, con gli occhi del cinema, medium giunto al capolinea, e inconsciamente cerca di darne una summa e un progetto di letterale resurrezione.

All’inizio di The Tree of Life sembra che sotto le immagini ci sia qualcosa, poi l’ossessione del film è quella di far vedere tutto, di riuscire a vedere tutto. Una sfida che sembra la stessa di Kubrick, del controllo totale, ma in fondo è il suo opposto: [...] Malick lancia la propria sfida a Kubrick; anzi, è curioso che questo film, che sembra proporsi come primo e ultimo di tutti i film, sia quello di Malick che più somiglia al lavoro di altri registi: Kubrick, Kieslowski, Lynch (e in certi momenti sorgono sinistre somiglianze con la saga dei film di Geoffrey Reggio, da Koyaanisquatsi [id., 1982] in poi). Anche Lynch, peraltro, aveva fatto un grande film di riconciliazione con la natura e la grazia, The Straight Story (Una storia vera, 1999) e anche lì la via era quella della pace tra Caino e Abele (ma senza archetipi materni di mezzo).

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Nel progetto sconfinato di The Tree of Life, si trova un ulteriore paradosso, tutto storico e contingente: il desiderio di onnipotenza (meglio: di onniveggenza) del cinema di Malick ha come presupposto la fine del cinema come “ontologia dell’immagine fotografica”. Il recupero di uno sguardo vergine è possibile solo nell’epoca di Avatar (id., 2009), è un gigantesco effetto speciale in cui il Super8 di casa sfuma nella visione di dinosauri. Quella di Malick è in questo senso forse la sfida autentica, la vera sfida per il cinema di oggi, anche se causa quasi il fallimento del film, e lascia intravedere il fallimento del cinema.