The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese

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Questa sera su Rai 2 (canale HD 502) alle 23:10 il penultimo film di Martin Scorsese: The Wolf of Wall Street. Ispirato alla storia del broker Jordan Belfort, ne scriveva Giancarlo Mancini su Cineforum 532, dove si può trovare uno speciale dedicato al film. (Ne parlarono anche Roberto Manassero e Pier Maria Bocchi).


Vincitori e vinti

Forse in pochi registi si trova questa difficoltà a chiudere, a sigillare con un’ultima inquadratura il fluviale percorso fin lì compiuto, come in Martin Scorsese. Regista barocco, si è detto e scritto in molti, forse con troppa semplificatoria foga di etichette, perché Scorsese non ama l’allegoria che sin dal Benjamin del Dramma barocco tedesco sappiamo essere il cuore pulsante di quella stagione ormai remota dell’arte figurativa, soprattutto. Scorsese è un autore viscerale, ama spingere i suoi personaggi verso il limite concreto della loro tensione nervosa e mentale. Per questo ha bisogno di tempo, per mostrare un arco, un cammino, un passaggio che riguardi qualcosa di determinante al nostro essere nel mondo.

Eppure mentre il cerchio si sta chiudendo, verrebbe da pensare per inerzia o per forza, ecco affiorare una zampata finale, in grado di dare un significato più preciso e per certi versi inaspettato a quanto abbiamo visto. Tra gli ultimi fotogrammi di The Wolf of Wall Street, subito prima di ritrovare l’ineffabile Johnathan Belfort giocare a tennis in carcere, perché grazie ai soldi si può fare tutto, anche passare una bella vita in carcere, c’è il rientro a casa del poliziotto che l’ha arrestato. È su un pullman diretto verso la periferia, davanti ai suoi occhi ci sono poche persone, molte di colore, che guardano a loro volta fuori dal finestrino aspettando di arrivare a casa. È uno scenario che ci restituisce un’immensa, sconfinata tristezza e solitudine, eppure è lui, l’uomo di legge, il vincitore della sfida. Quando il pullman si ferma, si vede che siamo in una estrema periferia della grande città, una periferia priva di dimensione umana, grigia e deprimente.

La vittoria del poliziotto è quantomeno parziale, anche perché subito dopo, vediamo Belfort giocare a tennis. Chi è dunque il vincitore? È possibile trovarlo in modo univoco, oppure il cinema di Scorsese, proprio nelle sue chiuse, ci invita a riflettere sulla provvisorietà delle soluzioni? Cosa determina la vittoria o la sconfitta, chi è nel giusto da un punto di vista etico o chi se la cava comunque? E il mondo, la società, si comporta come un mero notaio e ratifica quanto la legge sancisce con le pene o ha una sua posizione precisa e indipendente?

Restiamo su The Wolf of Wall Street. Molto tempo prima, nella vita e anche dentro questo lunghissimo film, i due, Belfort e il poliziotto, si sono incontrati sulla meravigliosa barca del broker, già ricchissimo e potente. Il poliziotto lo segue da tempo, accumula materiali sul suo conto ma non sa come stringere la morsa attorno a lui per essere certo che egli non riesca a sgusciare via. Belfort mostra per la prima volta la propria debolezza, lo scopriamo come un paranoico, assediato dalla paura che qualcuno possa incastrarlo. Nonostante l’avvocato gli abbia consigliato di far finta di niente, non curarsi delle indagini e cercare di mettersi in regola e arginare il proprio irrefrenabile desiderio di ricchezza, Belfort decide di convocare lui il poliziotto per sentire perché lo sta seguendo. Non vuole aspettare, cercare di confondersi tra la folla come un normale cittadino non si addice a lui, egli è un personaggio che fa, rappresenta l’intima essenza dell’uomo americano, intraprendente e desiderante, così come è possibile declinarlo negli anni Novanta.

Già in questo primo aspetto c’è un aspetto determinante del cinema di Scorsese, la dialettica tra chi guarda e chi fa. D’altronde a sentire lo stesso regista la sua stessa vocazione cinematografica è iniziata nel segno di questa dialettica. Era un bambino quando osservava dalla sua casa al quinto piano di Little Italy i bravi ragazzi darsi da fare, lottare per la supremazia di una strada, un isolato, un quartiere. Questo stare in alto del regista, da un’altra parte rispetto a dove avvengono i fatti, è una matrice fondativa del carattere dei protagonisti di Scorsese, il quale regala a loro la libertà, la disperazione, la possibilità di strafare che forse egli non ha avuto. Però non possiamo non osservare come queste prerogative non passino per così dire inosservate, ma siano anche le ragioni della loro sconfitta. È questa doppia pulsione a nutrire una parte importante del cinema di Scorsese, la passione per chi eccede i limiti imposti dalle leggi e la consapevolezza che ciò è sbagliato. Pathos e morale, aggrovigliati in una lotta senza sconti.

Torniamo ora alle ragioni che spingono Belfort a disobbedire al suo avvocato e non solo a non nascondersi ma addirittura a convocare egli stesso quello che è a tutti gli effetti il suo persecutore. Belfort ha una paura pazzesca del poliziotto, ma invece di nascondersi si svela definitivamente e soprattutto lo insulta, gli getta addosso i soldi mentre questi se ne va, biglietti da cento su biglietti da cento. E poi gli dice che nonostante tutto, comunque vadano a finire le cose, chiunque dei due vincerà, lui, il poliziotto, finirà sempre per tornare a casa su un vecchio bus diretto verso la periferia più squallida, malfamata e pericolosa. E così accade.

Molti hanno riflettuto sull’importanza della formazione religiosa per Scorsese, su quanto le cose vadano a finire male per chi si ostina a percorrere i sentieri del peccato. Però, come abbiamo visto, il finale di The Wolf of Wall Street è in sintesi la realizzazione di una profezia. Questo è il nodo cruciale, perché è vero che Belfort finisce in carcere, ma è lui che ha una visione del mondo tale da poter capire da pochi passaggi l’intima essenza dell’uomo nascosto dietro il poliziotto. Sono loro, i cattivi e i perdenti ad avere una visione del mondo e ad agire nel cinema di Scorsese; gli altri osservano, si mettono sulle loro piste, cercano di ripercorrere i loro passi con pazienza sperando di coglierli in fallo. Vincono, ma non hanno respirato a fondo l’inebriante profumo di plasmare il proprio futuro; sono stati dei bravi uomini, ma non hanno forzato catene, rotto argini, scardinato prigioni. Sono i vincitori, ma forse la vittoria non vale il prezzo di una vita grigia, sembra dirci Scorsese.

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Il rimpianto non fa parte di Belfort, egli non si è pentito. Ha continuato a combattere fino alla fine, finché non è caduto praticamente da solo nella rete che il poliziotto gli ha preparato e lasciato lì aspettando che restasse invischiato nei suoi fili. Se per Quentin Tarantino la droga è un gioco che avvita ancora più attorno al caso le vicende dei suoi personaggi, per Scorsese è un secondo motore da aggiungere sotto la scocca per andare ancora più forte, guadagnare ancora più soldi. Senza questo bisogno di divorare e alla fine pure di divorarsi non c’è nulla che valga la pena di raccontare e infatti i film di Scorsese, che forse potrebbero essere anche letti come dei film di guerra in tempo di pace, finiscono. I suoi personaggi respirano, sudano, sbagliano come pochi uomini hanno in realtà fatto, però sono loro che muovono le storie e anche il mondo. Belfort è un sopravvissuto, uno scampato, non scompare nel vuoto, gira per le scuole a fingersi un maestro, ma non può esserlo perché non c’è nessuno come lui, la sua voracità non è replicabile. È questo il mondo, e non c’è nulla di morale in ciò.