Un mondo perfetto di Clint Eastwood

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Questa sera su Paramount Channel alle ore 21 andrà in onda Un mondo perfetto di Clint Eastwood, film del 1993 a cui dedicammo la copertina di Cineforum 330. Qui sotto un estratto di ciò che scrisse Adriano Piccardi a riguardo (numero acquistabile qui).


[...]Un mondo perfetto scava a fondo nel cuore nero di questo regista-attore così ingannevolmente wasp, e la ferita che vi provoca non accenna questa volta a rimarginarsi in alcun modo. In diversi suoi film Eastwood ha collocato gli antagonisti in una cornice costituita dai lacci di un passato implacabile, che solo a poco a poco, nel corso del racconto, emergono per allusioni, mezze frasi, enigmatici dettagli, senza peraltro definirsi nitidamente e lasciandoci alla fine comunque sospesi nella necessità di immaginarci il resto. Anche il rapporto tra Red Garnett e Butch Haynes è di questo tipo (da sottolineare, inoltre, come lo stesso Butch sia in realtà all'oscuro di ciò che lo lega al suo inseguitore), ma la conclusione della vicenda ci propone uno scarto decisivo rispetto al modello usuale. Questa volta Eastwood/Garnett nell'occasione che il destino gli ha concesso non cerca la vendetta; questa volta, la resa dei conti deve essere con se stesso e non potrà che realizzarsi in un atto riparatorio nei confronti dell'antagonista Costner/Haynes: concretamente, nel salvargli la vita. Ciò non avviene. L'ottusa, feroce macchina poliziesca, impersonata dall'agente federale su cui si scarica per tutto il film l'impotente avversione di Eastwood regista e protagonista, impedisce la risoluzione virtuosa di quel vecchio debito. La frustrazione conclusiva di Garnett è totale, irreparabile, e non concede al ranger altra possibilità che il silenzio: non so se ho fatto davvero tutto il possibile, e non voglio neanche saperlo. Un finale così tragico e lacerato è confrontabile, in tutta la filmografia del Nostro, forse soltanto con l'ultima inquadratura del già indirettamente citato Cacciatore bianco, cuore nero.

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La violenza che Un mondo perfetto rappresenta è tanto più cruda, più dolce è l'illusione dell’amicizia impossibile tra Philip e Butch, che sembra costruirsi sotto i nostri occhi e che raggiunge il suo climax in quell'inquadratura assolutamente liberatoria del bambino sul tetto dell'automobile, in preda all'ebbrezza della velocità (quell'entusiastica ripresa aerea non si contrappone forse - e non prelude inevitabilmente - a quella finale, in cui Philip dall'elicottero vedrà allontanarsi per sempre il suo sogno insieme al corpo schiantato di Butch?). Da una parte sta la violenza necessaria alla realizzazione della fuga, su cui il film non chiude mai gli occhi anche se sceglie di tenerla fuori campo nei momenti della sua attuazione più brutale, con una scelta di moralità a cui di questi tempi non si può che essere profondamente grati, sia sul piano intellettuale che meramente spettatoriale. Dall'altra sta quella che si organizza e si predispone a colpire in nome della ragionevolezza e del ritorno alla normalità: «Mai sottovalutare la gentilezza della gente comune» riflette Haynes strappando i fili del telefono alla casa in cui abita la donna che li ha appena riforniti di cibo e soldi. 

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Il regista Eastwood distribuisce invece i ruoli e la loro importanza, badando coerentemente prima di tutto al senso del disegno generale, senza cadere nella trappola del protagonismo; al centro del racconto ci deve essere la storia del rapporto tra l'evaso e il bambino, a cui il progressivo svelamento della figura di Red Garnett deve fare solo da contrappunto. Scegliendo per sé questo ruolo, Eastwood non si concede la minima distrazione, limitandosi all’essenziale: l'evoluzione del suo personaggio è condotta con sicurezza e senza ammorbidimenti dall'iniziale esibizione di efficienza e decisionismo, molto "macho" e decisamente venata di misoginia beffarda, alla sua progressiva demolizione, fino all'ammissione conclusiva dell'impotenza e della marginalità rispetto al funzionamento della macchina poliziesca. Un'impotenza che risulta tanto più categorica proprio in quanto organica a dispositivo eminentemente metaforico messo in moto e sviluppato coerentemente dal film. 

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Un'altra testimonianza della continuità dell'autore Clint Eastwood rispetto all'evoluzione interna del suo cinema, e della sua esemplarità morale che ne fa da tanti anni uno dei pochi davvero grandi in circolazione, a Hollywood e non solo.