Weekend di Andrew Haigh

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Questa sera, su Cielo, alle 21:15 andrà in onda Weekend. Film del 2011 diretto da Andrew Haigh (recentemente al cinema con il suo ultimo lavoro: Charley Thompson). Riproponiamo la recensione a firma di Pier Maria Bocchi che pubblicammo sul nostro sito in occasione dell'uscita nelle sale.


È il secondo lungometraggio di Andrew Haigh, non l’opera prima. È del 2011. Esce in sala adesso, dopo il successo di 45 anni e la partecipazione a festival non così piccoli e invisibili come la distribuzione c’ha tenuto a far notare (excusatio non petita). Queste le generalità, che corteggiano ancora una volta il principio del “meglio tardi che mai”, un principio da terzo mondo, una consuetudine da paesi in via di sviluppo, la diseducazione di un mercato poco perspicace e che non confida negli spettatori.

Eppure Weekend è il film gay più bello degli ultimi tempi.

Basta omologazione. E basta equivalenza. Per resistere alla piegatura del gender su moduli largamente accettati dall’egemonia dei ruoli (qualcuno potrebbe definirla metrosessualità: a suo tempo, Mario Mieli parlava di eterochecche), proviamo a tornare a demarcare prepotentemente, a ispessire la disomogeneità. Proviamo a rimisurare l’identità, a riregistrarla, a rimetterla in proporzione. Rifacciamo dei distinguo, riconfiguriamo la disarmonia. Smarchiamo il sesso da un contesto dominante, e rinforziamo così il suo carattere originale di dissenso, di divergenza dal pensiero comune e dall’opinione tradizionalista.

Come Lo sconosciuto del lago (a questo proposito più teorico), e come Looking, la serie tv di Haigh per la Hbo, Weekend toglie dai suoi due protagonisti le macchie degli scenari socio-culturali e ridà importanza al sé come numero primo, una natura indivisibile e non conformabile. Per favore non discutiamo di parità di sentimenti, o di normalità d’amore: finalmente Weekend riconsegna un ordine alla diversità, e non la ordina secondo il sistema. Nella vicenda di questi due ragazzi che s’incontrano, si piacciono e s’innamorano c’è una storia (come era una storia quella di Breve incontro), ma c’è prima di tutto lo scontornamento dell’identità dai suoi bordi, per ricominciare a idealizzare il gender come fenomeno autosufficiente e antropocentrico. Soltanto così, con questo colpo di spugna su decenni di flirt con il potere e di inquinamento di una specificità di conflitto, con l’azzeramento ideologico, con la riproposizione prepotente di un senso ermeneutico non più corrotto da immaginari cinematografici impuri, ecco, soltanto così il sesso può rincasare nella sua forma più sincera. Non c’è però solitudine: assolutizzare il gender non vuol dire emarginarlo, bensì rinvigorirlo, rinnovarlo, riformularlo. Togliere le confort zone del gender e riproporre il gender stesso come confort zone a sé, idea di sé e per sé. È qui che possiamo ricominciare a pensare a un altroquale entità fondamentale.

Con una tale riformattazione, Andrew Haigh esercita la più intensa e formidabile rivoluzione possibile, quella dell’identità per l’identità. Allora sì che ha valore discutere di sentimenti, di indecisioni, di contraddizioni, insicurezze, imbarazzi, entusiasmi, perché sono cose proprie, e non universali, sono cose individuali e private, non generiche. Un valore gay, non indeterminato, non consueto, non buono per tutte le stagioni. Torniamo anche a ridare un vincolo alle parole. In questo film meraviglioso e commovente, però di una meraviglia per l’eccitazione del momento e di una commozione per le emozioni vive, c’è la virtù della parola e del gesto come stile, perché come usa Haigh le parole, come le filma, come le sceglie, come le fa dire lui, le parole, ai suoi attori, e come ne filma anche l'ascolto, e poi l'impatto, e poi il segno, non lo fa nessun altro. Guardate la scena finale alla stazione, dove le parole si perdono nel caos della realtà, e provate a non piangere. La rivendicazione di una singolarità passa anche da qui, dal peso assegnato alle parole e al loro ascolto.

Queering film, ovvero il cinema che torna a ridare autorità all’uomo in qualità di urgenza individuale (sì, urgente, perché ce n’è bisogno). Weekend è un capolavoro.