A 40 anni dalla morte di Pasolini

Forza del passato

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"Eccoci arrivati al momento in cui nessun tribunale potrà mai dire se in lei parla la ferocia o la pietà". (Porcile, 1969)

Pochi giorni fa abbiamo ricordato la dipartita di Sergio Citti, il cui nome e la cui filmografia sono legati inesorabilmente all'opera di Pasolini, benché Citti medesimo, con la profonda umiltà che ne temprava l'estroversa personalità, smentisse categorico, e forse non a torto, il parallelo con un autore incomparabilmente grande. Ma il Caso, chissà per quale enigmatica traiettoria, ha permesso che il decennale della scomparsa dell'autore di Ostia cadesse proprio nel quarantennale di quella del maestro-collega-amico.

Più di recente, plausibili tracce di un ipertesto pasoliniano si potrebbero desumere da titoli tra loro discrepanti, quali Il racconto dei racconti di Garrone o Non essere cattivo di Caligari, relative nel primo caso all'immersione fantastica nella pagina scritta, che accosta il modello a quelli di Mario Bava, Paul Verhoeven o al Rosi di C'era una volta, e nel secondo a una narrazione scarna sulla condizione del basso ceto giovanile romano. Come se il mondo senza speranza del sottoproletariato, assunto quale esasperata espressione della condizione storica contemporanea, non fosse mutato e proseguisse ininterrotto.

Ma pure ne La bella gente, uscito con sei anni di ritardo, o in Per amor vostro, firmati De Matteo e Gaudino: bersaglio del primo è quel ceto borghese, sedicente di sinistra, che rivela la naturale facciata quando l'agiatezza del censo, il veleno snob e il classismo sociale sono più forti di ogni buon proposito, e induce il sospetto, tolto di mezzo l'elemento estraneo, che il rinfocolarsi di un tiepido legame – assurto a estremo alibi – sia il motivo principale della presunta “buona azione”. Nel secondo, apologo incentrato sul ceto medio-basso napoletano, il personaggio di Anna “Capasciacqua” va incontro a una catarsi che ne premia la forte tempra nonostante le avversità, immortalata da un uso del colore teso a scandirne la sacralità sin lì nascosta dal bianco e nero. E il freeze della protagonista, che a ogni capitolo si contorna di elementi religiosi con un rosa stagliato dietro di lei, rammenta l'icona di una Madonna in gloria.

In esempi simili, come in una miriade di altri, l'osservatore può ancora individuare una dimensione politico-sociale della realtà, o persino un'ideologica mitologia cristiano-contadina, un'adesione viscerale alla spontaneità anarchica del popolo. E altro non è che il divario tra “passione” e “ideologia”, prima ancora che tra “sacro” e “profano,” a determinare il senso di tutta l'opera di Pasolini, letteraria e cinematografica.

Trattandosi di una figura scomoda, oggetto di innumerevoli scritti, articoli e opinioni differenti, su cui è impossibile asserire qualcosa che non sia già stato detto o ribadito, sembra sempre più difficile analizzare da vicino il personaggio e l'opera, il suo significato, i simbolismi e le allegorie, i rimandi all'iconografia pittorica, la pulizia e il nitore di un fotogramma qualsiasi, in un qualsiasi suo film.

Pasolini non c'è più da quarant'anni: impossibile trovare un cineasta “corsaro” capace di usare la cinepresa con la stessa lucidità critica e profonda inquietudine, nel raccontare il declino senza ritorno cui il Paese sarebbe andato incontro con la peggiore delle colpe: saperlo e ignorarlo come nulla fosse, sbarazzandosi di chi preannunciava il genocidio culturale, l'assorbimento-annientamento dell'emisfero sottoproletario nel miraggio capitalista, il consumismo borghese corrotto e dilagante, il cambio di casacca ideologica, sino ai colpi di Stato e ai giochi perversi del Potere. Semmai, si preferisce dissertare del personaggio Pasolini e della sua ambigua aura (Vieri Razzini lo definiva un “trauma”) quale unica ragione di enigma, insieme al suo assassinio.

Quello che importa oggi del mito sono le testimonianze, pur inestimabili, di chi ha potuto conoscerlo da vicino, tra giovani promesse e collaboratori fissi, eponimi colleghi e “ragazzi di vita”: i soli a poter documentare, come il citato Citti intervistato da Ciprì e Maresco, la vitale solarità dietro i segni di una fisionomia scavata – popolare come molti degli sguardi figuranti nei suoi film – e un paio di occhiali scuri. Un volto che, non per niente, si concedeva a caratterizzazioni cinematografiche per l'amico Lizzani, dal partigiano mutilato de Il gobbo al pistolero vate di Requiescant, per non parlare delle prestazioni davanti alla m.d.p. nelle proprie pellicole. 

Il fatto che la biblioteca Salaborsa di Bologna divulghi ad ampio raggio una lettura del personaggio Pasolini, attraverso un'appassionata documentazione di interventi e testimonianze, colme di scandali e denunce, processi e becerume, sequestri e censure, linciaggi di ogni tipo, suona come un impulso all'esegesi di un'icona su cui, è evidente, non si è ancora detto abbastanza.

Non c'è diario di bordo, appunto di regia per plausibili Orestiadi, inchiesta documentaristica, cortometraggio-preludio ad ossessioni non esattamente magnifiche, rilettura religiosa o teatrale, progetto nel cassetto o (ri)scoperta della realtà mediante il mezzo filmico che lo spettatore non abbia conosciuto o imparato a riconoscere. Un passo indietro rispetto a ciò che l'eversivo discorso di Pasolini andava profetizzando si può evincere nelle sceneggiature di La notte brava o de La commare secca. O nella trasposizione di Una vita violenta, di Paolo Heusch e Brunello Rondi, così come tra le pieghe felliniane – o meglio, “danzanti” – de Le notti di Cabiria.

Ma c'è di che avere, a un tempo, rimpianto e paura per una voce controcorrente che, al pari del mito-Tognazzi utilizzato da Pasolini nell'invecchiato Porcile (e la cui morte pure si sarebbe ricordata in questi giorni), si deve continuare a rimpiangere proprio per la scomodità di un pensiero lucido sul triste divenire. Quello che avremmo conosciuto nel successivo quarantennio e, pur sapendolo, forse nemmeno Pasolini avrebbe voluto toccare con mano. E viene da pensare che sia questa la tragica eredità, non voluta eppure necessaria, da lui offerta come un figliol prodigo allo stupido mondo antico e al feroce mondo futuro. Una “forza del passato” da perpetuare a futura memoria.


L'intelligenza non avrà mai peso, mai

nel giudizio di questa pubblica opinione.

Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai


da uno dei milioni d'anime della nostra nazione,

un giudizio netto, interamente indignato:

irreale è ogni idea, irreale ogni passione,


di questo popolo ormai dissociato

da secoli, la cui soave saggezza

gli serve a vivere, non l'ha mai liberato.


Mostrare la mia faccia, la mia magrezza –

alzare la mia sola puerile voce –

non ha più senso: la viltà avvezza


a vedere morire nel modo più atroce

gli altri, nella più strana indifferenza.

Io muoio, ed anche questo mi nuoce.”