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Approfittiamo della bella iniziativa della Ripley's Film, che nel mese di giugno farà uscire ogni settimana un film di Jacques Tati (si comincia oggi con Mio zio), per raccogliere alcune dichiarazioni del grande regista francese. Le abbiamo prese in prestito dalla monografia del Castoro, curata da Roberto Nepoti nel 1978.

«La comicità esiste già fuori di noi. Il problema è saperla cogliere. Credo, perciò, che osservando il mondo che ci sta intorno si possano trovare centinaia di personaggi comici. Le occasioni sono infinite. Per quanto riguarda il cinema, questo metodo può creare qualche difficoltà ai fini di un’immediata comprensione dell’effetto comico. Ho infatti la sensazione che, quando non si segue una regola precisa o uno schema tradizionale nella costruzione drammatica del film, gli spettatori restino un po’ perplessi e a disagio. È un rischio, comunque, che devo correre».


«La mia comicità deriva in parte dall’osservazione, ma un’osservazione che, di quando in quando, spingendosi un poco più lontano, arriva al burlesque. E poi, al contrario degli altri che non hanno mai cercato la verità ma solo l’effetto comico pure, io voglio che il gag abbia il più possibile di verità. Per me un ministro che inciampa è più buffo, soprattutto se è circondato da una certa pompa, di una persona qualsiasi».


«Un film comico è fatto da un filo conduttore, o almeno un film comico che aspiri a essere visivo. È basato sulle immagini, sul modo di servirsi delle persone e degli oggetti e non su una costruzione imbarazzante da portare avanti. Questa impedirà di inserire un incidente laddove ne avete bisogno. Alla gente piacciono le costruzioni ma è una semplice formula che invecchia anche male».
 

«Quel che ho cercato di ottenere fin dall’inizio – da Giorno di festa e anche dal primo cortometraggio che ho fatto con René Clement – è stato di dare al personaggio comico più verità. Ho tentato, da parte mia, di far vedere che, in fondo, tutti erano divertenti. Non c’è bisogno di essere un comico per fare un gag. Non c’è bisogno di essere un gran personaggio comico perché vi capiti una situazione comica. Più un’organizzazione è ufficiale, più decoro c’è, e più diventa buffo. Potrei fare a Hulot, nel corso del film, qualche “numero”; al contrario, cerco di metterlo esattamente allo stesso livello… diciamo del signor Arpel, per prendere il caso di Mio zio. Vorrei arrivare a fare un film, non lo nascondo, senza il personaggio di Hulot, solo con persone che vedo, osservo, sfioro nella via, per dimostrare proprio a esse che, malgrado tutto, in una settimana o in un mese, capita sempre loro qualche cosa, e che l’effetto comico riguarda tutti… Si può rimproverare a Hulot – o a me, almeno – di non spingere a fondo la propria comicità, ma – adesso che sono lanciato per questa via – ogni volta che il personaggio va un po’ lontano, non è più credibile: sono stato perfino costretto a fare qualche taglio. Io vorrei si sentisse che il personaggio dello zio non è un personaggio che viene dal circo, che si credesse davvero a uno zio».



Come di consueto, poi, abbiamo rovistato fra gli archivi della rivista a caccia di frammenti dedicati proprio a Mio zio.

«Il passaggio dal muto al sonoro, e quindi da una comicità visiva a una comicità visiva e verbale, non opera sostanziali variazioni allo statuto sessuale del comico. Si pensi a Hulot, il personaggio interpretato da Tati in una serie di film attraverso gli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta che resta a tutt'oggi il più esemplare rappresentante e continuatore della tradizione, affermatasi ai tempi del muto, che vuole l'eroe comico rappresentato nella massima rarefazione e schematizzazione sessuale. Già rarefatto come personaggio, Hulot non riesce neppure ad avvicinarsi alla soglia della sessuazione. Nel rapporto con le donne si tiene prudentemente molto al di qua di tale soglia. Si pensi a Mio zio, a quando Hulot interrompe volontariamente, per rispetto delle regole e in difesa della sua purezza, l'affettuoso atteggiamento verso la figlia della portinaia non appena si accorge che la fanciulla si sta trasformando in donna».
(Gualtiero Pironi, Il comico, l'amore e la morte, «Cineforum» n. 200, dicembre 1980)
 

«C'è sempre qualcosa che fa pensare a una gabbia nell'inquadratura che ci mostra una stanza dall'esterno della finestra. Con uno dei suoi colpi di genio è Tati a chiarircelo nel modo più semplice in Mio zio. Inquadratura dall'esterno sulla finestra del piccolo appartamento all'ultimo piano della casa popolare dove abita il personaggio interpretato da Tati medesimo; questi muove il battente riflettendo la luce del sole; a seconda della posizione in cui il battente viene fermato, si sente cantare un canarino. Controcampo: dirimpetto, al piano inferiore, un canarino in gabbia viene raggiunto dal raggio di sole riflesso dal battente manovrato da Tati e risponde con i suoi gorgheggi al gesto gentile del suo vicino di casa. Non è soltanto il canarino a vivere in gabbia; a suo modo lo è anche quell'altro, l'outsider, “prigioniero” felice di un modo di essere e di vivere che lo rende del tutto inadeguato al mondo esterno: quello degli adulti, a cui, per età cronologica, dovrebbe pur appartenere».
(Adriano Piccardi, in Camera con vista, «Cineforum» n. 407, agosto/settembre 2001)