Ritorna in sala la versione restaurata del capolavoro di Visconti

Rocco e i suoi fratelli

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Torna in sala nella versione restaurata e integrale Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, film del 1960.

Un film famigliare. La storia, l’idea, l’immagine, le figure di partenza sono, per Visconti, «una madre e i suoi cinque figli». Visconti lo fa dire, orgogliosamente, nel film, «cinque come le dita di una mano», a Rosaria, la madre vedova, venuta dalla Lucania con i figli Simone, Rocco, Ciro, Luca e con Vincenzo, già a Milano da qualche tempo. Madre e figli. Dal Sud al Nord. Madre nel nero del lutto, ambiziosa, decisa a cambiare mondo e vita. Lei e i figli come dita di una mano chiusa a pugno. Pugni per boxare come fanno Simone e Rocco. Simone, prima forte, poi debole e assassino travolto dall’amore per Nadia, la prostituta amata anche da Rocco, dei cinque il più consapevole del destino di tutti. E Ciro, solidamente realista. E il piccolo Luca che forse tornerà al Sud. E Vincenzo, il più normale, che si fa una famiglia con Ginetta.

Un film romanzesco. Nel senso che è una narrazione ad ampie spirali e nel senso che ha dietro di sé uno e più romanzi. Luchino Visconti dichiarava apertamente le sue ossessioni: «L’influenza maggiore l’ho forse subita da Giovanni Verga: I Malavoglia, infatti, mi ossessionano sin dalla prima lettura. E, a pensarci bene, il nucleo principale di Rocco è lo stesso del romanzo verghiano: là ‘Ntoni e i suoi, nella lotta per sopravvivere, per liberarsi dai bisogni materiali, tentavano l’impresa del "carico dei lupini"; qui i figli di Rosaria tentano il pugilato: e la boxe è il "carico dei lupini" dei Malavoglia. Così il film si imparenta a La terra trema – che è la mia interpretazione dei Malavoglia – di cui costituisce quasi il secondo episodio». E Visconti metteva in campo nelle interviste, insieme ai Malavoglia, anche altri richiami, dalla Bibbia a Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann, dalla figura del principe Myškin dell’Idiota di Dostoevskij al romanzo Il ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori (e una volta finito il film Visconti mette in scena L’Arialda di Testori, al Teatro Eliseo di Roma, e lo spettacolo viene bloccato, nel febbraio del 1961, “per intrinseca oscenità”).

Un film primitivo. Perché ci vuole un sacrificio. È Rocco che parla a Vincenzo: «Ti ricordi quando il capomastro comincia a costruire una casa? Getta una pietra sull’ombra del primo che passa: ci vuole un sacrificio perché la casa venga su solida».

Un film sociale. Sulla migrazione verso Milano. Dal Sud delle campagne, della miseria e del sole al Nord delle fabbriche, del denaro, della nebbia e del freddo. Anche della boxe, della lotta per emergere. Dalla Lucania a una Milano dove, quando i Parondi trovano un primo riparo in uno scantinato c’è chi, quando li vede passare con la loro poca roba sul carretto, soffia fuori un “Visto che roba? Africa”.

Soprattutto un film melodrammatico. Costruito per larghe scene, molte delle quali sono scene madri. Percorso da amori passionali e soffocato da amori amari, perché si uccide la donna amata e i fratelli si sfidano, perché la madre urla e piange. Perché, sulle terrazze del Duomo, Nadia e Rocco si amano e si odiano. Lei: «Ti amo! Perché mi tormenti così?» Lui: «Non ci vedremo più». Lei: «Te ne pentirai ma sarà tardi. Ti odio, ti odio». Perché la passione omicida e la passione pugilistica si alternano nel montaggio tra l’incontro, vittorioso, di Rocco sul ring e l’assalto, rovinoso, di Simone a Nadia. Il collegamento è preciso, linguistico. «Copriti!» dicono dall’angolo a Rocco che combatte sul ring. «Copriti!» grida Simone a Nadia che si mette davanti a lui e alza le braccia a croce.

Sorpassato il neorealismo, tenuta sempre presente la sua lezione, abbandonato il dopoguerra, superati gli anni Cinquanta dei governi di centrodestra, il paese va verso il boom e il cinema riapre i discorsi sul passato e sull’adesso. Il 1960 è un anno buono per il cinema italiano, anno che apre un decennio, altrettanto denso di opere di alto livello e di nuova concezione. In quel 1960 insieme a Rocco, ci sono La dolce vita di Fellini, L’avventura e La notte di Antonioni, Tutti a casa di Comencini, La lunga notte del ‘43 di Vancini, La maschera del demonio di Mario Bava, Era notte a Roma di Rossellini, Il tempo si è fermato di Olmi, I dolci inganni di Lattuada... Rocco e La dolce vita “incappano” tutti e due – come si diceva allora – “nelle maglie dell’occhiuta censura” e finiscono nei tribunali. Al film di Visconti vengono amputate o oscurate la scena di Simone che violenta Nadia davanti a Rocco e gli lancia in faccia le mutandine di lei, e la scena di Simone che uccide Nadia a coltellate. A pensare che quelle scene sono state sottoposte a una stupida revisione censoria viene da chiedersi che Italia era quella del 1960, raccontata dai grandi film di quell’anno. Era un'Italia che non voleva e non sapeva guardare alle verità che i suoi film raccontavano.