Il ricordo di Jonathan Demme attraverso i suoi film che abbiamo amato di più

Beloved Jonathan

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Jonathan Demme, scomparso ieri a 73 anni, lascia un vuoto enorme. Fra i più grandi registi americani degli ultimi decenni e fra i più influenti autori del cinema contemporaneo, il suo lavoro e il suo stile unico hanno influenzato e contribuito a formare generazioni di registi, critici e spettatori. Noi di Cineforum, che l’abbiamo seguito e ci siamo affezionati al suo cinema sin dagli esordi, vogliamo ricordarlo attraverso le nostre memorie personali. Ognuno di noi ha scelto un film e su quel film ha voluto condividere un ricordo, un pezzetto di vita, un’emozione che a quel particolare film è legata…


Il segno degli Hannah (The Last Embrace, 1979)

All’inizio di questo film c’è un movimento di macchina straordinario. È giorno, l’inquadratura mostra un tratto di mare. Poi la macchina si muove verso destra con passo deciso e minaccioso (è una steadicam, lo stesso anno di Shining), percorre la banchina di un binario ferroviario, scorge un treno in arrivo, passa accanto alle persone, si avvicina alle scale d’ingresso al binario e sterza a sinistra per inquadrate il protagonista. È come essere presi a forza e buttati dentro il film. Come se il film stesso decidesse di aggredire i suoi personaggi e affermare la propria superiorità sul mondo rappresentato. Anni dopo un movimento simile si sarebbe visto in quasi ogni film di PT Anderson, segno indelebile del passaggio di Demme nel cinema americano. (Roberto Manassero)


Una volta ho incontrato un miliardario (Melvin and Howard, 1980)

Una volta ho incontrato un miliardario si chiama in originale Melvin and Howard. Loro due. Un camionista povero e il miliardario motociclista Howard Hughes. Il camionista fa da buon samaritano. Demme, uscito dalla factory di Corman, mette i due su un camioncino, soldi e povertà, ricordi, sogni, una canzoncina di Natale, il deserto intorno, Las Vegas da qualche parte. E nessuna illusione. E un finale magnifico. (Bruno Fornara)


Qualcosa di travolgente (Something Wild, 1986)

È strano, perché se penso a Demme mi viene subito in mente una scena minore rispetto alle immagini per cui verrà ricordato, quelle dei colti psicopatici dalla bocca serrata o degli insostenibili piani ravvicinati su una sieropositività che vuole giustizia. Il ballo di un goffo Jeff Daniels travolto da Melanie Griffith, mentre alle loro spalle quei nerds dei Feelies suonano Fame di David Bowie, avrebbe avuto tutto per essere un culto, ma è anche, nel suo piccolo, l'essenza di un cinema che ha sempre guardato alla musica, in particolare alla new wave newyorchese, come crazy rhythm da cui farsi cullare. (Giampiero Frasca)


Una vedova allegra... ma non troppo (Married to the Mob, 1988)

Avevo 17 anni. Era primavera o estate, non ricordo. C'era comunque un clima mite, perché la sera andai in bicicletta a vedere due film, uno di seguito all'altro, com'era mia abitudine quasi quotidiana all'epoca. Il primo fu Le strade della paura. Il secondo Una vedova allegra... ma non troppo. Un double-bill fatto da me e per me. Mi diedi la buonanotte da solo, in estasi. Era il mio cinema. Era il mio momento. Già allora la commedia pop di Demme mi parve formidabile e geniale. A rivederla oggi non è né inferiore a Qualcosa di travolgente, né meno fondamentale di Il silenzio degli innocenti. Goodbye Horses. (Pier Maria Bocchi)


Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs, 1991)

Jonathan Demme ha fatto il film perfetto, Il silenzio degli innocenti. C'è dentro tutto – tutto il cinema, e il potere del cinema. Tra le tante scene che da un quindicennio almeno mostro agli studenti dei corsi di storia del cinema, il finale di quel film non manca mai. E mai mancherà. (Luca Malavasi)

Il thriller per eccellenza. Claustrofobico, angosciante, crudo e crudele come pochissimi altri film del periodo. Lo Psyco degli anni Novanta è una lezione di cinema, forte di una regia lucidissima tanto negli inquietanti primi piani quanto nella straniante profondità di campo, spesso spezzata da vetri, schermi e sbarre. Un film che è una discesa negli abissi della follia, che costringe lo spettatore a prendere lo stesso sguardo del maniaco che osserva e che porta a empatizzare con il geniale cannibale Hannibal Lecter. Un viaggio nelle zone più oscure del (nostro) inconscio, attraversato da battute memorabili («Mi mangiai il suo fegato con un bel piatto di fave e un buon Chianti») e sequenze che a ogni visione risultano sempre più perturbanti (dall’ingresso di Clarice nel corridoio della prigione al momento del trucco di “Buffalo Bill”). (Andrea Chimento)

Era, direi, la primavera del 1992. Nel mio liceo di provincia avevamo un professore di religione ecumenico per necessità (non andava ancora di moda farsi esonerare), che usava il cinema, VHS autoprodotti, registrati su Tele+, nella speranza di accendere l’interesse, se non la discussione su grandi temi, di etica e morale, quando non direttamente di fede. Non ricordo in quante puntate lo vedemmo, Il silenzio degli innocenti, con gli Oscar freschi freschi che fungevano da salvacondotto per gli altri docenti; non sono nemmeno sicuro che avessimo capito perché fosse stato scelto o che ne volessimo parlare, alla fine. Ma non posso togliermi dalla mente l’effetto che mi fece e mi continua a fare la scena del primo incontro tra Sterling e Lecter, quella progressione serrata di piani, in campo e controcampo (e qualche scavallamento, ma di quello me ne rendo conto solo ora) fino ad arrivare a sguardi in macchina insolentissimi, che puntavano a noi e parlavano a noi, oltre che a Clarice, sempre più palesemente destabilizzata. Poco importa, per l’epoca, che il film fosse doppiato e che le casse non fossero un granché, perché quei primissimi piani dicevano più di quanto non dicessero le parole; certo, il discorso sul profumo, sulla borsa e sulle scarpe cheap gettavano un’ombra sulla prof. di matematica, che sarebbe entrata di lì a poco, sciatta ma con lo stesso piglio saccente di Clarice Sterling. (Alessandro Uccelli)


Philadelphia (1993)



Se dovessi associare Demme a un solo titolo, la mia scelta ricadrebbe su Philadelphia. Anzi, sull'incipit di Philadelphia. Il film si apre nel migliore dei modi, con un prologo autonomo, snaturato da qualsiasi valore narrativo ma in grado di restituire con freschezza il respiro (funebre) di una metropoli. Le immagini, girate e montate con disarmante semplicità, sono accompagnate dalla celebre canzone di Springsteen, il quale si avvale di soli due strumenti per restituire la totalità di una composizione. Demme lavorerà alla stessa maniera: due  protagonisti per dare volto a una città (se non addirittura un Paese). Un concerto audiovisivo spensierato e malinconico, ritmato e sorprendente impossibile da dimenticare. (Simone Soranna)


Beloved (1998)

Ho visto per la prima volta Beloved su Tele+ quando ero studente, su uno di quei televisori che ci si può permettere da studenti, un 15 pollici di qualche sconosciuta sottomarca. Ero incredulo che un film di Demme (anzi, il film di Demme che seguiva Il silenzio degli innocenti e Philadelphia) non venisse distribuito nei cinema italiani, e pensavo a chissà quale clamoroso passo falso. Invece guardai i 163’ del film in apnea, seduto su una sedia di legno a 30 centimetri dallo schermo. Mi sembrò una variazione horror, malata e morbosa di Il colore viola di Spielberg, una storia di fantasmi in cui però quello che si deve temere è altro; per esempio la realtà, un po’ come in Personal Shopper di Assayas. Da allora, non ho più dimenticato due cose di quel film: la scena finale con Beloved (Thandie Newton) oscenamente nuda e incinta, che si dimena urlando sulla veranda, e la frase di Sethe (Oprah Winfrey), secondo cui «l’amore è o non è.» (Andrea Pirruccio)


The Truth About Charlie (2002)

Un film strampalato, anche per i canoni di Demme. Un film girato con una libertà espressiva vertiginosa. Mi ricordo bene quando uscì The Truth About Charlie: di certo non il suo film migliore, ma uno di quelli che se lo vedi quando sei molto giovane – e magari sei uno studente di cinema – ti rimane dentro per un bel po’. Girato a Parigi quando Parigi – agli inizi dei duemila – era the place to be e l’Europa era ancora un posto interessante (soprattutto per gli americani) è un po’ tutto il cinema di Demme condensato in un’imperfetta, vorticosa e sorprendente ballata metropolitana. C’è il genere (la detection), l’omaggio al cinema classico americano e a quello francese e poi ci sono Hitchcock, Truffaut, Agnès Varda, la musica di Aznavour e di Manu Chao, di Serge Gainsbourg e degli Asian Dub Foundation. Un miscuglio di cose che ben rappresentava la Parigi di quei primi duemila e anche tanto di Jonathan Demme: sofisticato, sempre attuale, un poco incompiuto e meravigliosamente eccentrico. (Lorenzo Rossi


Neil Young: Heart of Gold (2006), Neil Young Trunk Show (2009), Neil Young Journeys (2011)

Con il cinema di Demme ci siamo cresciuti, abbiamo imparato a capire anche grazie a lui che oggetto straordinario poteva essere quello e che cosa poteva fare la musica nella scrittura delle esperienze esistenziali. Quando poi negli anni 2000 è avvenuto che prendesse a seguire per ben tre volte quel tizio enorme e dinoccolato che la vita l'ha presa e cavalcata con la sua voce aliena e sofferente e la sua chitarra che ha insegnato un po' a tutti... insomma quando è avvenuto che Demme si sia messo in viaggio con lo "zio" Neil Young a raccontare come nessuno, seguendolo da vicino, quell'uomo complesso e travagliato e la sua musica seminale beh, ho dovuto solo stare lì e farmi portare via come il cinema di Demme sapeva e saprà sempre fare. (Chiara Borroni)


Rachel sta per sposarsi (Rachel Getting Married, 2008)

Qualche anno fa il cinema americano – mainstream ma anche indie – sembrava avere trovato nelle commedie a sfondo matrimoniale un palcoscenico ideale dove ripetere all’infinito, tra abiti da sposa e confessioni accanto a un altare, un meccanismo ripetitivo e codificato. Ma poi, al Festival di Venezia del 2008, arrivò Rachel sta per sposarsi. Ancora una volta Jonathan Demme era riuscito a scombussolare tutto e a sovvertire le regole del  gioco: un continuo scivolamento di piani, un mettere in luce ciò che abitualmente è in ombra, cogliendo nei dettagli secondari il cuore delle relazioni umane, un approccio quasi documentaristico nei confronti di un genere ormai canonizzato. Il film è segnato da una  ricerca emotiva di verità, da una sincerità stilistica, da una struttura drammaturgicamente ribelle che allarga e costringe i tempi come in un assolo jazz. Ringrazierò sempre Demme per avermi fatto tuffare in quel groviglio di affetti e disamori senza reticenze né protezioni, fino a specchiarmi, esausto e felice, negli occhioni sgranati di Anne Hathaway. (Federico Pedroni)

Di Rachel sta per sposarsi non può non colpirmi la personalità borderline di Kym, figura capace di un discorso carico di rancori mai sopiti dietro la filigrana dello schermo, che volutamente mette ospiti e futuri sposi in un imbarazzo disarmante. La facciata non (più di tanto) superficiale di un personaggio doloroso, che la mdp di Demme coglie in primissimo piano, e in religioso silenzio, nel racconto dell'incidente al fratellino. Due sguardi di un insieme tesi a fotografare l'emarginazione, destinata a allontanarsi in punta di piedi, forse per sempre, il mattino dopo una giornata di cerimonia e tripudi. E alla Rachel del titolo, sugli ending credits, non resta che osservarne la partenza in eco della Alice di Arthur Penn. Ti sia lieve la terra, Jonathan. (Francesco Saverio Marzaduri)


A Master Builder (2013)

Al festival di Roma 2013 partecipai all’unica proiezione di questo film folgorante. Non ci furono repliche; la proiezione, in seconda serata, alla presenza del regista, non fu preceduta mi pare nemmeno da un’anteprima stampa. Il film - una gemma - rimase inedito a lungo, pressoché invisibile non solo in Italia. Cambiò persino nome. Quando lo vidi si chiamava Fear of falling: un titolo che alludeva al contrasto tra la verticalità delle ambizioni e l’orizzontalità del destino con cui Demme portava in scena Il costruttore Solness di Ibsen. Essendo legato agli interpreti Shawn e Gregory, autori dell’adattamento, fa venire in mente Vanya sulla 42° strada di Malle, ma è piuttosto diverso. Nella messa in scena con camera a mano, prossima a quella di Rachel sta per sposarsi, a un certo momento irrompe Hilde (Lisa Joyce, straordinaria), alla cui presenza corrisponde un cambio di formato e una provvisoria stabilizzazione dell’immagine. All’inarrivabile luminosità di Hilde fanno eco i veloci camera car che percorrono il film in un ideale controcampo metafisico, visualizzando orizzontalmente la paura di sfuggire alla vita, la “paura di cadere” dalle altezze del proprio ego da parte del protagonista morente. Corsi a congratularmi da Demme per il capolavoro: mi ringraziò emozionato, con un caloroso sorriso. E sembrava davvero commosso, vista l’ovazione che stava ricevendo (Stefano Santoli).


Dove eravamo rimasti (Ricki and the Flash, 2015)

C’è una scena in Dove eravamo rimasti in cui Meryl Streep è a un matrimonio: lo sposo è suo figlio. Con lui non ha praticamente più alcun tipo di rapporto perché troppi anni prima ha scelto di  fare rockstar piuttosto che la mamma. Ed è chiaro a tutti che lei, in un posto tutto elegante e perfettino, col menu vegano e i calici di  spumante, non c’entra davvero niente. Ma ad un certo punto, senza che nessuno gliel’abbia chiesto, tra il disgusto e lo scetticismo generale, sale sul palco assieme alla sua band e decide di suonare My Love Will Not Let You Down di Bruce Springsteen in onore degli sposi.  Gli invitati, seduti ai propri tavoli, la guardano male e ridono di lei; ma dopo neanche 20 secondi la sala da ballo è gremita di gente che si scatena: danzano tutti senza sapere nemmeno il perché. Era (ed è) esattamente questo, il cinema di Jonathan Demme. (Francesco Ruzzier)