Vittima di un ostracismo crudele. Stava lavorando al terzo film

Caligari, regista-mondo

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«La guerra era finita. Mi avevano preso finalmente. I ricchi avevano avuto la loro rivincita, prima o poi doveva succedere. Avevo fatto piangere troppa gente in tutti quegli anni e anch’io ero pieno di cicatrici. Un anno prima non avrei ascoltato il Rozzo. Non sarei andato a intrappolarmi in quella villa. Ma allora avevo voglia di perdere.» (L’odore della notte)

Due film, quasi tre, in trentadue anni. Claudio Caligari è riuscito, con testarda determinazione, a completare il montaggio del suo ultimo Non essere cattivoma se n’è andato prima di poterlo vedere finito, magari presentato con qualche onore a un festival, quell’onore che gli è stato brutalmente negato per buona parte della sua vita. Eppure Caligari è stato uno degli autori più importanti di questi ultimi, pigri, trent’anni di cinema italiano, un regista-mondo il cui lavoro è stato intralciato da un ostracismo crudele quanto miope, testimone del fatto che da noi la libertà creativa spesso viene lasciata soltanto ai pavidi.

Piemontese di lago – era nato ad Arona, sulle sponde del Maggiore, nel 1948 – Caligari aveva trovato a Roma, dopo esperienze da documentarista militante sparse negli anni Settanta, il terreno dove coltivare il suo destino cinematografico e la sua visione del mondo. È un semisconosciuto quando al Festival di Venezia, nel 1983, presenta Amore tossico, che vince tra lo stupore generale il Premio De Sica. Quel film è, rivisto ancora oggi, un oggetto extraterrestre nel panorama italiano, stretto tra il declino del cinema politico degli anni Settanta e il crescente calligrafismo nostalgico o storiografico che affiorava da più parti (in concorso quell’anno a Venezia c’erano Una gita scolastica di Pupi Avati e Il disertore di Giuliana Berlinguer).

Amore tossico esplode come una bomba, con i piedi saldi dentro la contemporaneità più drammatica e un gusto cinematografico ingombrante, che non cede il passo all’urgenza del contenuto, anzi, lo raddoppia. La costruzione della sceneggiatura, scritta con il sociologo Guido Blumir, è il frutto di una condivisione assoluta e di uno sforzo impavido di comprensione dei suoi protagonisti (non professionisti presi dalla strada, una banda di Virgilio nell’inferno dell’eroina) e del mondo che abitano. Un’idea di cinema che però non dimentica mai un’idea di messa in scena. Amore tossico non è né vuole essere un documentario ma, al limite, un documento sotto forma di narrazione filmica, che non tralascia elementi di commedia, di noir, persino di western – il rumore gli zoccoli degli eroinomani sul lungomare di Ostia – ostentati orgogliosamente per creare un immaginario forte quanto la realtà di cui si occupa.

Il realismo di Caligari si nutre di vita e cinema, raccoglie barlumi di un’eredità pasoliniana (la scelta irriducibile dei marginali, senza infingimenti né simbolismi) per passarla al setaccio di una modernità che ha ridotto un’intera generazione a combattere la ròta, a svolta’ una pera di eroina come unica forma di sopravvivenza concessa da un capitalismo avanzato a pieno regime: ragazzi che hanno perso tutto ma non la loro disperata vitalità, che vivono a due passi dal mare ma che non riescono mai ad andarci.

Amore tossico è cinema politico del dopobomba, in cui la passione ideologica si sposa a una descrizione del mondo mimetica e cristallina anche dal punto di vista strettamente linguistico e formale, all’uso dissonante della cultura popolare (le canzoni di Battisti e Alice), alla capacità di una coraggiosa impudicizia anche negli slanci più sentimentali e drammatici, come la scena disperata all’Idroscalo, sotto il monumento a Pasolini ancora non meta di pellegrinaggi con languido sottofondo evocativo di Keith Jarrett.

Dopo Amore tossico però le porte della carriera di Caligari si chiudono invece di aprirsi. Ci vogliono quindici anni per vedere il suo secondo film, altrettanto rigoroso, innovativo, sorprendente, spudorato, alieno: L’odore della notte. I fatti narrati vengono ancora una volta dalla realtà, ispirati da un libro di Dido Sacchettoni, ricostruzione delle gesta criminali della banda dell’Arancia Meccanica che aveva terrorizzato con le sue rapine la Roma bene a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta.

In quel periodo storico e politico Caligari ancora una volta trova il punto di rottura di ogni patto sociale, il nervo scoperto di un mondo frantumato tra scelte ideologiche estreme, eroina di massa, violenza come rivalsa sociale. Insomma: una guerra collettiva e individuale che, se non poteva essere vinta, non si poteva comunque non combattere. Di nuovo nella narrazione di Caligari si impone la puntigliosa descrizione antropologica del contesto, l’inventiva linguistica – qui una miscela frenetica e commovente di alto e di basso –, l’adesione laboriosa e tutta concreta alla costruzione dei personaggi.

L’odore della notte frulla Scorsese (Taxi Driver è citato direttamente in due scene), Pasolini e Brecht; sceglie un metodo narrativo elaborato e ricchissimo – voce fuori campo, sguardi in macchina, momenti di straniamento di derivazione quasi teatrale – senza mai perdere di vista i suoi obiettivi, sposandoli e non sacrificandoli sull’altare di un’idea cinematografica comunque solidissima, mescolando con ardire e ardore cinema popolare e lotta di classe. Un racconto fatto di conflitti e antitesi – i ricchi e i poveri, le baracche e le ville, le pellicce e le pistole – che non smette mai di combattere, che si sente in guerra come i suoi personaggi. Un cinema che sceglie le luci notturne della strada e svuota gli appartamenti decorati e lussuosi di una ricchezza colpevole e (altrettanto) violenta.

Ma ogni guerra sfinisce i suoi soldati e L’odore della notte sfuma verso un finale amarissimo, pur non dimentico del gusto per lo sberleffo. L’ultima rapina, quella che costerà la galera a Remo, a Maurizio e al Rozzo, si svolge in una casa piena di potenti – il politico, la nobildonna, il vescovo – che cercano di riportare alla ragione i banditi offrendogli un lavoro, un posto protetto, un’omologazione, un innesto nello stesso corpo sociale che li ha espulsi e li ha costretti a una vita violenta di crimini e rivendicazioni. Ma questo non è possibile: è meglio la galera, unico modo – coercitivo ma coerente – di smettere; è meglio essere catturati con le armi in mano, anche e soprattutto quando ormai si ha voglia di finirla, di perdere.

Caligari è morto così: montando il suo film, con le sue armi in pugno (e il sostegno di Valerio Mastandrea, produttore affettuoso e sostenitore instancabile, e di un gruppo di lavoro che ha realizzato con dedizione e coraggio un film che nessuno voleva fare). Nell’attesa impaziente di vederlo, proviamo a studiare con occhi nuovi i due film che ci ha lasciato, riscoprendone l’assoluta originalità, la coerenza implacabile, il coraggio umano e il furore stilistico. E cerchiamo di ricordare, con vergogna e tristezza, l’indifferenza con cui a volte il nostro cinema tratta i suoi artisti più puri.