Chéreau, l'incandescente

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Una morte prematura e brutalmente inattesa: Patrice Chéreau, uno dei più grandi registi francesi di teatro, opera e cinema, è stato ucciso da un tumore il 7 ottobre scorso all'età di quasi sessantanove anni. Aveva saputo di essere malato mentre stava lavorando contemporaneamente a due regie, Rêve d'automne di Jon Fosse e La Nuit juste avant les forêts di Bernard-Marie Koltès, un autore di cui aveva già messo scena Combat de nègre et de chiens nel 1983, Quai Ouest (1986), Dans la solitude des champs de coton (1987 e 1995) e Retour au désert (1988).

Come regista teatrale è stato un rivoluzionario e un enfant prodige: nella prosa debuttò nel 1964 con L'Intervention di Hugo e nella lirica cinque anni dopo con L'Italiana in Algeri di Rossini al Festival dei Due mondi di Spoleto. Nel 1970 fu chiamato da Strehler al Piccolo Teatro dove diresse Splendeur et mort de Joaquin Murieta di Pablo Neruda e la consacrazione definitiva avvenne a Bayreuth nel 1976 con una memorabile e innovativa regia della Tetralogia wagneriana. Da allora non si è mai fermato: oltre una quarantina di regie teatrali e una dozzina di regie liriche, spaziando da Marivaux a Molière, da Shakespeare a Wedekind, da Marlowe a Ibsen, a Müller, da Rossini a Mozart, Offenbach, Strauss, Berg...

Affrontò il cinema per la prima volta nel 1974, firmando con Jean-Claude Carrière un magnifico, barocco adattamento da un romanzo di James Hadley Chase, Un'orchidea rosso sangue (banale titolo italiano di La Chair de l'orchidée, 1975), dove la follia assume una dimensione inedita. Chéreau dimostra già di eccellere nella tensione febbrile che imprime ai suoi personaggi, spesso lacerati e in fuga, ma non senza insinuare uno humour nero che diventerà congeniale al suo stile.

“Incandescente” è un aggettivo che ricorre nei testi critici sui suoi film e infatti lo stile di Chéreau autore di cinema aderisce alle pulsioni più segrete e telluriche dell'io con un acuto, talvolta spasmodico senso della fisicità: si pensi alla raffigurazione dell'eros omosessuale in L'Homme blessé (1983), all'isteria come chiave inedita e rischiosa per rileggere Cechov in Hotel de France (1987, dal Platonov), al grandioso, violento affresco cinquecentesco di La Regina Margot (La Reine Margot, 1994), al crudele melodramma corale Ceux qui m'aiment prendront le train (1998) o, ancora, alla messa a nudo di un desiderio randagio e anonimo, mescolato a paura, disperazione e gelosia, in Intimacy – Nell'intimità (Intimacy, 2001), all'inferno coniugale primi '900 di Gabrielle (2005, da un racconto di Conrad), con una straordinaria Isabelle Huppert, e infine al conturbante e convulso intrigo di Pérsecution – Persecuzione (Pérsecution, 2009), uscito in Italia solo in dvd e in tv.

Ma Chéreau era un autore magistrale anche nell'epurazione delle tinte narrative, come ha dimostrato dirigendo una grandiosa Simone Signoret in Judith Therpauve (1978), ritratto di una donna che nasconde un mistero, o realizzando l'intenso dramma da camera Son frère (2003).

Patrice Chéreau è stato anche un potente attore di cinema: lo ricordiamo diretto da Wajda (Danton, 1982), Chahine (Adieu Bonaparte, 1985), Mann (L'ultimo dei mohicani, 1992), Ruiz (Il tempo ritrovato, 1999) e Haneke (Il tempo dei lupi, 2003).