Conversazione con Carlo Mazzacurati

Con la giusta distanza

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Questa chiacchierata con Carlo Mazzacurati è stata fatta in un pomeriggio della primavera 2011, seduti sui divani chiari della sua casa silenziosa alle porte di Padova, mentre il suo labrador girava lento tra i nostri piedi. 

Si può dire che il rapporto tra l’individuo e il territorio sia una sorta di costante all’interno dei tuoi film.

Faccio fatica a non partire dai luoghi, anzi credo che molto spesso l’idea stessa di un lavoro nasca in me proprio a partire dalla volontà di trasmettere la sensazione di penetrare nella dimensione di un luogo; solo in un secondo momento il progetto si arricchisce di narrazione, di personaggi, di fatti ma, per me, è il luogo a essere sempre stato il punto di partenza.

Non credo che riuscirei a immaginare una storia realmente «multiambientabile»; provare a ipotizzare se la storia alla quale sto lavorando possa essere davvero plausibile in un altro posto, mi serve infatti spesso – in fase di trattamento – come controprova del punto al quale sono arrivato nella costruzione del materiale. Se, trasportando la storia in un altro luogo, essa risulta ugualmente credibile, allora vuol dire che non sono ancora arrivato a completa maturazione.

Tanto per fare degli esempi concreti, quando lavoravo a La giusta distanza (2007) a un certo punto mi sono chiesto: «E se io ambientassi il film nella periferia espansa di una grande città?». Mi sono accorto allora che le dinamiche tra i personaggi, il senso di isolamento o il ruolo specifico di una figura come quella del meccanico tunisino non avrebbero funzionato in un altro contesto: non si sarebbe riuscito ad avere il fuoco su quest’ultimo personaggio come invece poteva avere in provincia; si sarebbe potuto restituire qualche aspetto, prendere in considerazione, per esempio, il lato diurno di quel contesto, ma altri aspetti non erano plausibili, non certo il lato notturno del racconto. Questo per dire quanto è importante il luogo dove una storia è ambientata.

Attraverso l’immersione dei personaggi nello spazio che li circonda, il paesaggio, l’ambiente stesso, viene trasformato da sfondo in personaggio che si determina anche e soprattutto in base all’incontro tra l’uomo e il territorio specifico che gli sta intorno.

L’unico film nel quale mi sono allontanato da questo discorso è A cavallo della tigre (2002), un film girato in buona parte a Torino. Il protagonista è così disambientato e senza una collocazione riconoscibile, da trovarsi come su un nastro trasportatore di ipotesi di luoghi senza mai essere realmente in contatto con quello che lo circonda e dunque senza la possibilità di riconoscervisi. Si sente che vive in una prospettiva mentale e immaginaria limitata, per lui gli ambienti sono sostituibili e infatti non si tratta di luoghi di appartenenza quanto piuttosto di scenari romanzeschi, di appendice, come le colline in cui si segue una linea di piloni al pari di torri di avvistamento in un romanzo di cappa e spada. Essi sembrano dunque appartenere a una dimensione immaginaria proprio perché è questo il modo in cui lui li vive, come se fossero contesti narrativi di uno sceneggiato: l’antro, il precipizio, la landa da attraversare...

Non è un caso infatti che sia l’unico film che ho girato in ambienti nuovi che non conoscevo affatto, che scoprivo e affrontavo insieme alla troupe trovando istintivamente, epidermicamente le soluzioni e il modo per interpretarli, senza poter contare su quella sedimentazione alla quale invece sono abituato girando normalmente in luoghi con i quali ho un rapporto profondo.

Nel tuo cinema domina l’ambiente della pianura veneta, del Delta del Po, un luogo fortemente antropizzato che riesce a esprimere però una sorta di forza primigenia, una forza che è appunto quella che serve ai personaggi per riscoprirsi, per compiere delle scelte. La pianura ha dunque questa forza, questa specie di potere che si mescola in maniera quasi paradossale al senso di rarefazione che trasmette.

Il problema, per noi che abitiamo in queste zone, è che negli ultimi anni si è creato un processo repentino di saturazione del paesaggio. Tutta la zona tra Vicenza, Verona, Treviso e Padova, per esempio, una volta si articolava in aree agricole molto ampie e organizzate che si sviluppavano intorno ai capoluoghi; in trent’anni queste terre si sono appunto saturate, diventando una specie di città diffusa... A questo processo si sono sottratte poche zone, le più difficilmente industrializzabili dalla piccola industria, quella che non ha una vera e propria strategia di sviluppo.

È vero che è un processo che riguarda più o meno tutta la pianura padana ma qui, essendo una zona che partiva da una condizione di maggiore arretratezza - il cosiddetto meridione dell’Italia del Nord - tutto è stato più veloce, disordinato, anche più visibile e dunque più traumatico, più violento, un po’ come un pugno in un occhio. Non si è calcolato lo sviluppo della piccola industria che si è espansa in modo incontrollato e gli unici posti che si sono in qualche modo salvati, perché per loro natura indomabili, sono la montagna (ancora vastamente libera a eccezione di alcune zone colonizzate dalle attività turistiche), e la laguna che in senso più esteso comprende anche il delta.

Questo di pianura è appunto il paesaggio che mi ha sempre affascinato di più, un po’ perché è una specie di zona senza tempo, in cui non c’è modo di far stratificare nulla, neppure gli abitati: il Delta è infatti troppo mobile per consentire un’espansione progressiva intorno a un insediamento antico, continuamente si aprono zone d’acqua e se ne interrano altre il che impedisce questo processo. Anche per questi motivi il Veneto del Delta, zona che conoscevo fin da adolescente, è diventato per me un fondamentale luogo di riferimento (tanto che ci ho ambientato tre film: Notte italiana del 1987, L’estate di Davide del 1998 e La giusta distanza): perché si tratta di uno spazio che, benché abbia una personalità propria, mi si è sempre posto davanti come spazio mutevole, aperto, una specie di vuoto da riempire, un foglio bianco su cui scrivere liberamente.

Quando ho cominciato a studiare la zona in maniera più sistematica, per girare Notte italiana, mi sono convinto che questo paesaggio mi avrebbe anche aiutato a sviluppare una soluzione per il problema non secondario – soprattutto quando hai un budget molto contenuto – del controllo visivo dell’ambiente; avvertivo la necessità di individuare – altra questione molto complessa – un paesaggio con una forza visuale propria. Credo infatti che, nella costruzione di un film, troppo spesso venga sottovalutato il problema della consapevolezza del luogo che si ha di fronte, la preoccupazione di interpretarne i segni, di imparare la lingua che quel luogo parla.

Io credo di aver imparato sul Delta l’importanza di stabilire uno sguardo personale sul paesaggio apprendendone la lingua, conoscendolo; è un principio che poi sono riuscito a portarmi dietro anche quando ho affrontato un luogo che non mi apparteneva, come l’hinterland romano di Un’altra vita (1992). Questo film - che è un racconto di disorientamento profondo, di solitudine - in fondo non è altro che il tentativo di appropriarmi, anche attraverso la fatica e il dolore, di un territorio altro dal mio, di marcarlo con la mia presenza fisica, di raccontarlo con il mio sguardo.

Non si può dire che, fatte le debite eccezioni, l’attenzione per il paesaggio sia stata una peculiarità del cinema italiano. Eppure quella che si individua nel tuo cinema è una sorta di fusione tra paesaggio e racconto in cui il secondo si costruisce e si dimensiona in funzione del primo.

Nel dopoguerra, il paesaggio è stato molto importante nel cinema italiano, ma è un’attenzione che purtroppo poi si è persa, mentre per me rimane un aspetto fondamentale. In altri immaginari, come quello americano naturalmente, il ruolo del paesaggio è invece un elemento non solo più presente ma addirittura costitutivo e fondante dell’intera dimensione culturale.

Ci sono però alcuni esempi anche nel cinema italiano, soprattutto relativi a un momento particolare come quello del neorealismo, in cui si avverte la necessità di costruire il racconto partendo proprio dallo sguardo sul paesaggio; penso a un film come Paisà (1946), per esempio, in cui Roberto Rossellini va per sensibilità istintiva in questa direzione (basta metterlo a confronto con il paesaggio per contro totalmente letterario, molto più raffinato eppure meno urgente di Ossessione, 1943, di Luchino Visconti per notare la differenza di sguardo).

Da questo punto di vista un film italiano contemporaneo che ho trovato molto innovativo, molto attento al dialogo tra racconto e paesaggio, è L’imbalsamatore (2002) di Matteo Garrone; l’idea di far dialogare due luoghi come il litorale alto campano e Mantova l’uno con l’altro rendendoli spazi del disagio, è molto acuta, molto consapevole e testimonia una sensibilità per i luoghi che è del tutto inusuale nel cinema italiano.

Davanti ai tuoi film si ha spesso l’impressione che i personaggi siano costretti quasi loro malgrado a entrare in relazione con un territorio, talvolta estraneo talaltra familiare, che entra in scena subito per diventare mano a mano rivelatore dell’essenza profonda, umana, dell’individuo. Una sorta di sguardo di localizzazione che dà in apertura le coordinate spaziali di quello che sarà il teatro ambientale in cui il racconto si muove.

Molto spesso in effetti i miei film si aprono con l’arrivo del personaggio che porta un punto di vista soggettivo in un posto nuovo del quale si appropria, prima attraverso uno sguardo d’insieme e poi penetrandolo.

È un po’ il significato delle camera car che avvicinano Davide al Polesine in L’estate di Davide, Saverio al litorale di Ostia in Un’altra vita (1992) o Vesna all’Italia in Vesna va veloce (1996). Leggendo progressivamente i segni del paesaggio che penetra e in cui si immerge, il personaggio gli conferisce anche una forza drammatica che struttura il suo percorso all’interno del racconto.

Esattamente. Quando invece il paesaggio è familiare, come nella Lingua del santo (2000), si crea il discorso opposto: il paesaggio non è tanto una scoperta quanto piuttosto il teatro di una sorta di regressione. All’inizio i personaggi sono semplicemente calati in una città di cui non sono riusciti a interpretare il cambiamento e a vivere la trasformazione... Quando i due reagiscono al disagio finiscono per esplicitare, anche a se stessi, il loro essere fuori luogo e fuori tempo e si spaventano. E così, man mano che si spaventano, arretrano fino a rifugiarsi in una sorta di liquido amniotico: cominciano un percorso a ritroso nella loro storia che li porta dalla città sui colli che stanno dietro Padova, dove si trovano le seconde case, dove si andava quando finiva la scuola, luoghi di sospensione, dove non si incontrano persone e ci si sente protetti; poi procedono fino a raggiungere la laguna, il luogo estremo dove il personaggio interpretato da Fabrizio Bentivoglio finalmente può sentirsi in equilibrio psichico. Questi tre stadi del racconto (la città, i colli e la laguna) rappresentano un po’ il percorso complementare rispetto a quello che affrontano i personaggi che si trovano a misurarsi con luoghi sconosciuti di cui appropriarsi. È tutto capovolto.

Ma l’approccio al paesaggio mi aiuta anche molto dal punto di vista tecnico, nella strutturazione compositiva della sequenza delle inquadrature. In Vesna va veloce, per esempio, ho cercato proprio di mettermi nei panni di uno straniero costretto ad affrontare un posto che non conosce: una persona che ignora la lingua segnica del luogo, che magari ci entra dalla parte sbagliata, dall’ingresso secondario, come fa Vesna che entra in Italia da Rimini; la parte di costa su cui si sviluppa l’agglomerato edilizio e turistico della costa romagnola è una sorta di luogo atipico, quasi americano, dominato da luci abbacinanti, quasi un nonluogo che porta la ragazza in una specie di relazione metafisica con il paesaggio, una relazione che rispecchia la scissione che lei vive tra ciò che è e ciò che pensa di essere. Anche questo è un modo di dialogare tra il paesaggio e il racconto.

La sensazione che si ha di fronte al tuo cinema è infatti che il paesaggio non sia mai dato come scenografia, ma che esso stesso sia un elemento determinante per definire l’identità dei personaggi. Il fatto che l’immagine ambientale condizioni l’azione umana è d’altronde un concetto che appartiene alla filosofia, alla poesia, alla pittura, all’architettura e all’urbanistica ben prima che al cinema. Il paesaggio diventa pertanto una forma simbolica attraverso cui si esprime non solo uno stato d’animo (quello riassunto nel concetto di stimmung), ma anche la complessità di un’intera dimensione culturale. Lo stato d’animo del luogo diventa allora funzionale all’orientamento e al riconoscimento del personaggio, sia che si tratti di qualcuno di radicato sia di qualcuno che cerca di appropriarsene, e il fattore culturale diventa la mediazione necessaria al rapporto con quello stesso luogo.

Certo. Il concetto di stimmung è molto interessante e pertinente; si tratta in effetti di una consapevolezza un po’ più nordica che nostra: una sensibilità atmosferica per i luoghi che fa parte di una cultura filosofica, letteraria, poetica tipica di quelle culture ma che io sento molto vicino. Si tratta di concetti complessi, sfumati, quasi impossibili da tradurre, un po’ come la melancholia o come lo spirito che domina nei romanzi di formazione di area germanica, l’idea del percorso, della necessità dell’attraversamento...

Credo di aver bisogno di passare sempre attraverso una forte interpretazione e questa non può non essere condizionata da un fattore culturale. Dato che la pittura è sempre fortemente legata all’atmosfera di un luogo, mi aiuta molto, per esempio, utilizzare una serie di interpretazioni pittoriche come filtro per elaborare uno sguardo mio sul paesaggio. Porto infatti sempre con me quaranta, cinquanta immagini di quadri che, come dimensioni visive risolte, mi aiutano a far capire anche a chi lavora con me a che tipo di atmosfera sto pensando. Sono anche immagini anomale rispetto al contesto ma che diventano dei riferimenti per la costruzione della mia visione personale; hanno la funzione di vere e proprie pagine di sceneggiatura, non sono citazioni ma servono per restituire l’idea di un’intenzione emotiva, qualcosa di non comunicabile con le parole... Ho bisogno di poggiare su degli elementi di realtà potenti ma ritengo che l’intervento interpretativo sia ovviamente imprescindibile.

Penso per esempio a quello che sono stati i miei rapporti con gli stessi luoghi nel tempo e a come essi si siano evoluti. Come abbiamo detto sul Delta del Po ho girato tre film: Notte italiana, poi, a distanza di circa dieci anni, L’estate di Davide e infine, più o meno dieci anni dopo, La giusta distanza. Finito il primo film avevo un forte sentimento di riconoscenza nei confronti delle divinità che sovraintendono quei luoghi, quei pioppeti, quegli argini perché avevo la sensazione che mi avessero protetto. Mi ero un po’ appropriato di quei paesaggi, mi sentivo un po’ come se ne avessi rubato la forza senza davvero rispettarne l’essenza perché li avevo utilizzati come una sorta di teatro di posa all’aperto; siccome mi fa paura girare nei teatri veri, che mi spaventano proprio per l’impossibilità di far emergere il genius loci, ho preso il Delta, soprattutto quello notturno, come teatro. Lì, sentivo una forza e un silenzio simili allo spazio teatrale perché c’è un ordine, un vuoto che tu puoi fare tuo e interpretare, c’è una mancanza di elementi incontrollati che ti permette la più completa concentrazione. Dopo quell’esperienza mi sentivo insomma un po’ in colpa per aver rubato tutto questo e, dieci anni dopo, volevo in qualche modo saldare il mio debito.

Per L’estate di Davide sono quindi tornato negli stessi posti fisici del film precedente con l’intenzione, questa volta, di mostrare realmente che cosa c’era lì, dentro le case, intorno. So che è una cosa un po’ scaramantica ma ho avuto il bisogno di mostrare la vera anima di quei luoghi che prima mi sentivo di aver in qualche modo tradito. Pagato il tributo, dieci anni dopo, con La giusta distanza, ho fatto un’operazione ancora diversa: ho mescolato elementi di realtà ad altri di irrealtà trascinandoli come attraverso un solco che ho creato in quel territorio; il rapporto tra paesaggio, racconto e individui è infatti qui molto più artificioso, non è realmente legato alla vera anima del Delta ma, grazie alla conoscenza che ho di queste zone e al sentirmici a mio agio, ho potuto lavorare nella direzione che mi interessava.

Per me quel territorio è infatti ormai diventato una specie di tavolozza, mi so muovere, so riconoscere i suoi segni e lavorarci sopra anche depotenziando, come in questo caso, la sua cifra di riconoscibilità specifica. Così, nel film, il Delta è diventato una specie di superprovincia del mondo; non avrei potuto, come ho detto prima, ambientare il film in una periferia, forse piuttosto in una provincia del Nord della Francia o degli Stati Uniti... Tant’è che quando mi è capitato di portare il film all’estero hanno capito perfettamente quello che volevo raccontare: il senso di vuoto o le difficoltà di relazione tra i personaggi sono elementi trasportabili in una specie di provincia generale sensibile agli stessi pesi e alle stesse misure.

Se in L’estate di Davide il principio di localizzazione, di territorialità era assoluto, qui invece gli stessi luoghi sono stati infatti reinterpretati in questo senso immaginando una storia non ambientabile altrove ma traducibile in altre lingue... È un po’ quello che mi capita leggendo un racconto di Checov o di Carver: come se in quei luoghi mi riconoscessi anche se non mi appartengono. In La giusta distanza il tentativo è stato appunto quello di fare di un luogo riconoscibile per le luci, i colori, i segni con cui si esprime, una specie di sovraluogo universale.

Questa sorta di fusione tra il paesaggio del Delta e il racconto a partire dalla quale si articolano i tuoi film fa pensare in qualche modo, benché possa sembrare paradossale data l’assenza dell’ambiente urbano, al ruolo della città in certo noir americano che spinge essenzialmente verso un’idea di alienazione.

Esatto. In effetti la potenza enigmatica e perfino angosciosa che io cercavo in quel paesaggio, soprattutto con La giusta distanza, è decisamente più urbana che periferica. Da quest’intenzione derivano infatti anche i caratteri psicologici estremi che connotano i personaggi, come la disponibilità quasi patologica della ragazza che è espressione di un disperato vuoto relazionale e di uno smarrimento molto urbano come condizione psicologica. L’attrice mi ha aiutato in questo perché con la sua fragilità mi ha suggerito una strada che non avevo ancora completamente sviluppato nel personaggio. E pensare che gli attori principali avrebbero dovuto essere altri!

Non è una questione di fatalismo, credo veramente che a volte siano gli imprevisti a farti trovare la strada giusta. Questo film è stato molto condizionato dagli imprevisti ma in senso positivo: forse perché avevo pagato dieci anni prima il mio tributo, le divinità di quei luoghi, del meteo, della singola giornata, sono state molto favorevoli regalandoci sempre quello di cui avevamo bisogno. Credo che si debba avere sempre un certo rispetto dei luoghi, soprattutto del loro spirito.

Non se vi ricordate il ritratto di Andrea Zanzotto che ho girato qualche anno fa. Ecco, credo che lui sia la persona che più mi ha aperto la testa per capire tutto quello di cui stiamo parlando: la consapevolezza di chi siamo in rapporto al paesaggio. Secondo lui l’essere umano si muove nel paesaggio come una specie di spoletta che segue una traiettoria, costruendo, cucendo, riparando gli strappi. Ricordo che gli feci una domanda sulla possibilità di affezionarsi ai posti brutti, quelli che pian piano diventano un’abitudine e dunque un punto di riferimento. E lui mi rispose: «Guarda, da qualche anno io vado a fare un giro nel mio paesino e non manco mai di andare a visitare la colonnina del mercurio della farmacia come parte ormai indelebile dell’armonia di quel luogo!». L’ho trovato molto toccante.

È una questione di adattamento, di evoluzione, di metabolizzazione del cambiamento rispetto a quello che ci sedimenta dentro da quando siamo bambini, quello che si consolida come irripetibile, definitivo, di non temporale; è forse proprio a questo che si lega il mio problema ad allontanarmi, a uscire da questo territorio. Io sono stato ventitré anni a Roma perché non avrei potuto fare diversamente per fare questo mestiere, però non sono mai stato a Roma con la testa: è come se avessi fatto ventitré anni di militare! Poi sono tornato, ma non perché non possa stare altrove o non possa fare cose fuori di qui, ma perché questa è la mia dimensione di accesso primigenio al mondo, il mio sguardo iniziale e stare qui mi permette di ricapitolare con più chiarezza. Mi serve proprio per ragionare partire da una specie di teatro che conosco e riconosco anche se cambia negli anni.

A questa idea del sedimento e della trasformazione mi fanno pensare simbolicamente anche le vestigia del passato industriale, la presenza ancora attiva delle ciminiere, i tralicci dell’alta tensione e ancora i ruderi, i rottami, i relitti che ricorrono molto spesso nei tuoi film. Non si tratta di una denuncia di sfruttamento dell’ambiente da parte dell’uomo: questi elementi assumono visivamente il ruolo di segni del cambiamento tanto che sono diventati parte integrante del paesaggio, sono stati inglobati e metabolizzati finendo per caratterizzarlo.

Non ho una sensibilità ambientale tanto acuta da costruire operazioni di denuncia... Io sono nato a una decina di chilometri da Padova, sui colli, e ho vissuto i primi cinque o sei anni della vita in una dimensione arcaica, quasi olmiana. È questo che intendo per il sedimento che rimane, sia a livello concreto sia astratto; è la base su cui poi si innestano e stratificano le trasformazioni che lasciano i loro segni nei caseggiati disabitati, nelle strutture crollate, nelle macchine che divengono rottami, un po’ come la nave abbandonata nell’Estate di Davide. È questo il brutto cui ti affezioni, come la colonnina di mercurio di Zanzotto!

Dobbiamo imparare a convivere con le mutazioni, è questo quello che lui dice, anche se può essere straziante l’ottusità di alcuni cambiamenti. Lui, per esempio, vive nella campagna trevigiana che è un paesaggio molto dolce nelle linee e nei nomi, un paesaggio sinuoso in cui l’acqua, grazie ai cosiddetti «palù» (rogge che si aprono e si muovono conquistando la terra) costruisce una specie di reticolo liquido che ogni tanto viene bruscamente interrotto da un intervento violento, come per esempio un edificio piantato a forza in un punto stabilito arbitrariamente. Come si fa a non capire? Non è che non si debbano realizzare queste opere ma farlo rispettando la stratificazione e la complessità del territorio; non possedere la sensibilità per capire per esempio che la mobilità data dall’acqua funziona per scaricare la tensione accumulata dal terreno, è, per Zanzotto, qualcosa di più dell’offesa: è come se bloccassi il sistema circolatorio del territorio creando un’occlusione.

Il progetto stesso dei ritratti si lega a questo concetto di cambiamento. Ho voluto incontrare persone come Andrea Zanzotto, Luigi Meneghello e Mario Rigoni Stern perché è con i loro scritti che sono cresciuto. Rigoni Stern per me non è diverso da Ernest Hemingway! Quando sono tornato da Roma mi chiedevo se quello a cui stavo assistendo qui fosse un cambiamento davvero così repentino, vorticoso, senza precedenti o se invece fossi davanti al naturale corso degli eventi e fossi piuttosto io, emigrante che ritornava, a percepirlo in maniera più sconvolgente. Mi sono detto allora che parlare con qualcuno di più anziano e originario di queste zone, qualcuno che avesse seguito questo processo con occhio diverso, mi avrebbe potuto aiutare a capire. Hanno allora preso forma queste specie di conversazioni da osteria con Marco Paolini, chiacchierate che si sviluppavano anche a partire da considerazioni ingenue tipo: «Ma allora perderemo tutto ciò su cui si è costruito il nostro sistema di segni, la nostra lingua?».

I tre ritratti e La lingua del santo sono proprio un tentativo di rispondere a queste domande, una specie di sfogo disperato del disagio provocato dal cambiamento: i due protagonisti del film d’altronde sono loro stessi dei rottami, gli unici che non sono riusciti a prendere il treno della trasformazione perché non hanno gli strumenti per interpretare il mondo che si muove introno a loro troppo velocemente. Nei ritratti, per esempio, era molto interessante il punto di vista di Meneghello che veniva da una lunga esperienza in Inghilterra e osservava quindi con una certa distanza un po’ snob, ma molto divertente e divertita, il dibattersi di noi povera gente che, con il nostro idealismo crociano, trovavamo sconvolgenti certi aspetti del cambiamento. Lui diceva che se nel Veneto non si fossero costruiti anche i capannoni accanto alle case coloniche la gente non sarebbe mai uscita dalla miseria più nera, e concludeva: «So che questo ragionamento non piacerà a voi idealisti!»... Mi fa molta simpatia, ora a dieci anni di distanza, questo suo atteggiamento che è il sintomo della possibilità di un affetto e di un rapporto diverso per i luoghi dai quali provieni.

Ti voglio leggere una riflessione di Gianni Volpi che, partendo da un’osservazione di Serge Daney, scrive a proposito del territorio:

“Invece di andare a caccia dei luoghi di un nuovo sentire dolente e però sublime, nel territorio si ritrova un vero corpo di immagini, immagini nuove perché necessarie. Il territorio è scelta di una scala, definizione di un campo e dei suoi limiti; è mistero della lingua, della comunicazione; ha un senso, quello di una cultura sepolta nel tempo; ha la consistenza, esso stesso, di un vero personaggio che interessa altrimenti, a volte quella dell’allegoria.”

È molto bello ed è un po’ la sintesi della mia necessità primaria, quella cioè di pormi con attenzione di fronte a ciò che ho davanti. La scappatoia di cancellare e ricostruire non funziona, bisogna starci davanti anche per trasfigurare. È necessario bagnare i propri panni nella materia territoriale che uno ha di fronte, intorno, se no si fa fatica a trovare la posizione della spoletta di cui si parlava prima. Non deve essere uno sforzo, ma un processo istintivo, centrale, necessario; la dimensione del luogo d’altra parte è un sostrato psichico dal quale non puoi prescindere, è anche la dimensione fisica del tempo che tu vivi. È evidente anche nel cinema, nei film storici o ambientati nel passato che – a parte quell’omicidio perfetto che è Barry Lindon (1975), che fa paura perché è stato realizzato da una mente spaventosa come quella di Stanley Kubrick – sono figli dell’epoca in cui vengono realizzati. Lo stato psichico del tempo e dei luoghi, indipendentemente dall’epoca o dalla dimensione che racconta, è completamente imbevuto dell’idea di luogo che si ha nella contemporaneità.

Anche per questo mi piace pensare al tuo cinema come a una sorta di articolata operazione di geografia umana per immagini, intendendo per geografia umana la disciplina che si basa sulla ricerca degli elementi soggettivi nel rapporto tra uomo e territorio.

La costruzione di un film è sempre un percorso che tiene fortemente conto di questa dimensione. Tutti i miei lavori sono, o per appartenenza o viceversa per avvicinamento, confronto, cambiamento, esplicitamente correlati all’idea di un luogo specifico. Per negazione in qualche modo lo è anche A cavallo della tigre che, come abbiamo detto, ha un’ambientazione quasi completamente mentale ed è una specie di proiezione elementare e televisiva che il protagonista ripropone a se stesso in maniera continua per risolvere i problemi reali. Così la soluzione finisce per essere come quella che si potrebbe trovare in un cartone animato: ci servono i soldi? Li prendiamo in banca! Dobbiamo scappare? Saltiamo giù dalla scogliera! In questo film volevo proprio cercare di capire quanto una persona sia povera, nuda, senza prospettive e disperata se non appartiene a un luogo.

Quanto questo è vicino o lontano all’idea, ancora una volta germanica, di heimat?

Non è un caso che la maggior parte dei miei lavori parta, geograficamente parlando, dai luoghi della mia formazione. Li posso elencare: il Delta del Po con le sua varie sfaccettature e il suo spirito quasi sperimentale (che ha consentito i corsi e ricorsi di cui si è detto), Padova e i Colli Euganei (che hanno permesso la sintesi di quel percorso a ritroso di cui abbiamo parlato) e la Toscana (che è la terra di mia madre e la mia seconda patria, una sorta di heimat estiva, sensuale).

(Questa inervista è pubblicata in Cinema e Ambiente, volume curato dall’Unità Operativa Educazione Ambientale - Settore per la Prevenzione e Comunicazione Ambientale di ARPAV, in collaborazione con l’Associazione Cinemambiente di Torino).