Ejzenštejn, l'artista, l'uomo

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In occasione dell'anniversario della Rivoluzione d'ottobre (1917-2017), e nel giorno in cui il canale televisivo Iris programmerà in prima serata, a partire dalle 21.05, La corazzata Potëmkin e Ottobre, abbiamo recuperato alcuni passaggi di uno straordinario testo pubblicato su Cineforum nel 1967: il ricordo del grande regista sovietico da parte di uno dei suoi collaboratori, Grigorij Kozincev, anch'egli regista sia cinematografico sia teatrale. L'intero articolo si può leggere in versione integrale sul numero 62 di Cineforum disponibile in formato pdf.

[...] Di persone come Ejzenštejn ne nascono una al secolo. L’ispirazione raggiunge le vette più alte, si crea lo strumento della sorprendente forza della cordialità altruista, l'unico e non rinnovabile mondo spirituale dell'uomo, aggiungiamo, del genio. Se l'uomo è un artista; il mondo spirituale riflette il mondo reale dei suoi tempi e vince il tempo; l'epoca presa in una sua qualsiasi parte essenziale, continuerà a vivere nell'arte. Questo riflesso non ricorda quello speculativo.

L'arte di Ejzenštejn non poteva essere separata dalle sue tendenze, dalla sua mentalità, dal suo gusto. Le tendenze e il gusto si potevano vedere in tutto, nel carattere dell'arte creativa, nell'arredamento della stanza, nella sua maniera di parlare. Ovunque egli abitasse, entrando nel suo studio, si poteva riconoscere a chi apparteneva l'abitazione. Tutto portava il segno della sua personalità. Cominciando dall'entrata, libri dappertutto: sopra l'attaccapanni, sugli scaffali (in due file, perché non c'era posto), sui tavoli, sulle sedie, su ogni cosa: filosofia, arti figurative, psicologia, teoria dell'umorismo, storia della fotografia, dizionari di slang e argot, circo, caricatura… La sola enumerazione delle specialità richiederebbe troppo spazio.

L'erudizione si combinava con la passione per le trovate divertenti. Egli non faceva altro che giocare: sulla parete appariva uno strano bassorilievo: un globo segato a metà in una sontuosa cornice dorata dell'epoca rinascimentale; un candelabro d'argento a sette braccia si trasformava in appendi cravatte, la parete laterale di uno scaffale per libri diventava una galleria di personaggi sorprendenti con gli autografi, dall'inventore del rasoio di sicurezza Gillette alla stella del secolo scorso Yvette Guilbert; sopra l'armadio vi erano delle figure del teatro cinese, degli angeli russi di legno. Al posto d'onore il guanto di gomma con l'atto di donazione del comico «rabbioso» Harpo Marx (in un numero di varietà, Harpo lo mungeva come la mammella di una mucca). Le stanze ricordavano in un certo qual modo frammenti di decorazioni teatrali e gli accessori del carnevale. Niente di simile con le collezioni degli amatori degli oggetti di antiquariato. Tutto era in disordine; di unità stilistica nemmeno l'odore. Le combinazioni venivano stabilite dai contrasti.

[…] Le immagini dell'artista – l'opera di molti anni – si trovano in parentela fra loro. Esteriormente, le più vecchie possono non rassomigliare alle più giovani, esse sono l'artista stesso: il suo mondo interiore; i suoi tratti in movimento, in sviluppo, in mutamento. Però è il mondo interno dello stesso uomo. I film, l'abitazione, i disegni, gli studi sono lo stesso uomo. La sua biografia si è fermata: il cammino dall'infanzia alla maturità. Egli ottenne facilmente la gloria mondiale; ma ottenere il lavoro e finirlo come voleva fu più difficile.

Ora egli non c’è più. Però il destino della sua arte si è già formato. La sua arte è lui stesso, Sergej Michajlovič Ejzenštejn. Egli continua a portare con sé in giro per il mondo un grande baule di cuoio con disegni e incisioni, la passione per la cultura mondiale e per i generi bizzarri dell'umorismo. Soltanto ora tutto ciò non appartiene più a lui, ma alla storia della cultura mondiale. E così pure il baule e le amate incisioni (in esse si è conservata l'impronta del suo gusto) e le sue scelte monellesche (in queste è più facile riconoscerlo).

[…] Non gli bastavano mai i formati, i preventivi, i termini. Non esistevano i mezzi – nel vero senso della parola – per poter realizzare quello che aveva progettato. Egli era in preda alla passione per l'immensità: i porta-lucignoli di porcellana appesi sotto le immagini sacre delle camere reali del Palazzo d'Inverno gli dettero l'idea di confrontare tutte le religioni Ottobre; il toro del Kholkhos ha puntato i corni nelle nubi come un simbolo panteistico in Il vecchio e il nuovo. In viaggio verso il canale di Fergan, Ejzenštejn decise di occuparsi anche di Tamerlano. Le associazioni di idee – il loro mondo era immenso – aprivano orizzonti senza fine. Così, senza passare dall'una all'altra, ma facendo scoppiare l'una con l'ausilio dell'altra, la sua arte avanzava; i disegni, le scenografie, la scena, il teatro, lo schermo ... A Ejzenštejn anche lo schermo sembrava insufficiente. Cos'è che lo incitava a questa instancabile ricerca, non gli dava tranquillità, lo spingeva sulla strada della fatica?

[…] Per comprendere il montaggio di Ejzenštejn “il fuoco” è, forse, una parola troppo pacifica. Sarebbe più giusto dire “esplosione” e ricordare altre righe (parlando dell'arte di quegli anni si ritorna invariabilmente a Majakovskij:

Parlando alla nostra maniera,
Una botte con dinamite
Una riga fuma,
e la città
salta in aria
la rima è
una botte.
la riga è
la miccia.
la riga accende,
insieme con la strofa.

Le inquadrature sono state riprese quarant’anni fa, ma a ogni persona che si trova in sala sembra sempre, che i cannoni siano puntati su di lui, che la formazione di soldati con il fucile a bilanciarm si diriga su di lui.

È difficile sopravvalutare La corazzata Potëmkin. Ejzenštejn ha dimostrato che il soggetto di un film può essere non la rivalità in amore, ma la lotta del popolo per la giustizia. La scala della storia non è sorta in uno stretto riflesso, ma direttamente in tutta la sua terribile grandezza. Tutto quello con il quale veniva in contatto si animava – il mare, le incerate, le macchine della nave, i gradini della scalinata di Odessa – tutto diventa enorme, importante, al punto da non poter essere dimenticato per tutta la vita. Le persone della nostra epoca rammentano le cose più semplici: la carrozzella per bambino, gli occhiali rotti, la candela nelle mani del marinaio ucciso.

[…] Ejzenštejn insegnò alla cinematografia l'arte di sbalordire. Egli creò l'epos nel cinema. Le dimensioni perdute dal teatro del secolo furono recuperare dallo schermo. Sorsero di nuovo, ma già con un'altra qualità, il pathos, il terrore tragico; la commiserazione patetica. Le folle di migliaia di persone, esse stesse, direttamente, non per il tramite dei protagonisti, divennero gli interpreti della tragedia. Nel mondo sorse un nuovo schermo. Il cinema non solo occupò un posto uguale a quello delle forme elevate dell'arte, ma per alcuni anni si trovò a occupare la cattedra dell'insegnante. L'arte degli anni venti oltrepassò di molto i limiti dei suoi tempi, vinse l'epoca.

[…] Nel mondo di Ejzenštejn non c'è ancora niente di stabilito. E noi non conosciamo la cinematografia alla quale sarebbe arrivato. Troppo frequentemente, e non per colpa sua, egli non portava a termine i film, interrompendo le ricerche. Egli ha tracciato un cerchio immenso di determinati generi artistici. L'attualità – le dimensioni delle esperienze dell'arte del XX secolo (in particolare della pittura) – si combinavano con le tradizioni secolari. Ciò è caratteristico anche per Meyerhold. E un altro artista conosceva queste dimensioni dell'elevazione degli strati delle culture mondiali; così è passata attraverso la pittura di Picasso, la cultura nera; Velasquez, Ingres, Manet...

Per esprimere lo spirito delle rivoluzioni sociali, Ejzenštejn ha studiato quanto vi era di più potente e di più ossessionante nella cultura mondiale; egli voleva scomporre questi grumi di estasi, o di pathos, scoprirne la struttura e, deducendo una formula matematica, creare una nuova arte. Una specie di stadio dei turbamenti nel quale migliaia di spettatori sarebbero stati dati in preda allo sdegno, all'orrore, all'entusiasmo, da attrazioni basate sulla passione e sulla scienza. Qui, al centro della luce, del colore, del suono, dovevano sorgere, in affreschi dinamici folle di persone; oggetto della tragedia sarebbero diventate le categorie della filosofia; le concezioni avrebbero soppiantato le immagini. Perfino lo schermo di La corazzata Potëmkin sarebbe stato piccolo per un tale genere di cinema. In questa arte vi erano i tratti della teatralità patetica, le colorazioni dei vetri della cattedrale di Chartres, la magnificenza e l'orrore del balletto di sangue – le corride, la potenza dei corali, le sinfonie delle nature morte di Zola ... Ricadeva su quest'arte l'unità più complessa e più difficile dell'uomo?

La risposta non è semplice. I suoi film sono stati interpretati da grandi attori. Essi hanno messo in opera sia l'impegno, sia il talento, ma la sua arte non poteva essere comparata con immagini umane. A parer mio, soltanto un interprete è stato in grado di adempiere al compito assegnatogli: il leone di marmo. Però la passione umana ha costretto il marmo a ruggire. Egli stesso, l'autore dei suoi film, era altamente umano, un grande artista della rivoluzione. Ma la grandezza del suo mondo spirituale egli la dette agli uomini. In La corazzata Potëmkin c’era molta più umanità che in migliaia di pellicole dedicate oggi alla vita.

C'era l'uomo, tutto l'uomo…