Miloš Forman, una carriera

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Venerdì 13 aprile, in Connecticut, è morto all'età di 86 anni il regista ceco Miloš Forman. Tra i protagonisti della nuova onda del cinema cecoslovacco degli anni Sessanta, decise di restare a Parigi, dove si trovava per lavoro, dopo l'invasione del suo Paese da parte dei carri armati del Patto di Varsavia nel 1968 e poi di trasferirsi definitivamente negli Stati Uniti. Forman divenne uno dei protagonisti della New Hollywood degli anni Settanta, vincendo un Oscar come miglior regista per Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975) e girando il celebre musical Hair. Negli anni 80, dopo il grande affresco storico di Ragtime, tratto dal romanzo di Doctorow, vinse un secondo Oscar con il celeberrimo Amadeus, biografia di Mozart con la quale tornò a girare nel suo Paese d'origine. In seguito realizzò altri quattro film, tra cui la biografia del comico Andy Kauffman, Man on the Moon.

Lo scorso anno il Bergamo Film Meeting dedicò una retrospettiva a Miloš Forman, pubblicando per l'occasione una raccolta di saggi sull'autore. Per ricordare il regista, proponiamo alcuni passaggi dai testi di Angelo Signorelli, Emanuela Martini e Roberto Manassero. 



Gli amori di una bionda (1965)

Dopo quattro lungometraggi girato in patria, Forman è già all’estero, da dove assiste all’invasione del suo Paese, l’allora Cecoslovacchia, da parte delle truppe del Patto di Varsavia. A parte Al fuoco pompieri (1967), in cui si legge una satira impietosa all’apparato burocratico del partito, gli alti film guardano ai giovani e ai disagi, le aspettative, le inquietudini, le insofferenze che caratterizzano il periodo del passaggio dall’adolescenza all’età adulta. La gioventù ceca non è diversa da quell’Europa occidentale: i padri incarnano il potere in famiglia, le madri funzionano da “ammortizzatore sociale”. I corpi scoprono il piacere, pur tra esitazioni, paure, frustrazioni. Le illusioni sono tante, come i desideri, ma poi arrivano gli scoramenti, i fallimenti, le crisi. Niente di nuovo sotto il sole. Ma Forman è uomo di cinema: la mano è solida, l’inquadratura eloquente, il ritmo adeguato al soggetto, la scrittura efficace. E poi c’è la capacità di cogliere l’espressione giusta, quella che racconta un comportamento, un modo di essere, uno stato d’animo.

Forman voleva essere un uomo di teatro, diventa l’uomo con la macchina da presa, per mettere in scena il grande spettacolo della realtà. Dapprima, è quella del mondo in cui vive, che egli osserva con senso realistico – o forse sarebbe meglio dire neorealistico, come inducono a pensare certe sue affermazioni – ma già con un evidente gusto per la sottolineatura ironica o lievemente grottesca. Si pensi al padre Petr in L’asso di picche (1963), petulante e insistente, ossessivamente compreso nelle sue convinzioni, ma comicamente incostante sui destini del figlio. O alla madre di Milda in Gli amori di una bionda (1965) che, dopo che il figlio si è sistemato tra il letto e il marito nel letto matrimoniale, in piena notte ingaggia una sfiancante schermaglia con i due maschi, innervositi e riottosi, a causa della situazione paradossale che si è venuta a creare nell’appartamento. Sono solamente normali scenette familiari, si potrebbe dire: ma le espressioni di Petr e quelle di Andula, la giovane che ha creduto alle bugie di Milda, descrivono fastidio e sofferenza, immaturità e un’amarezza ancora di pelle, segno di un processo di formazione che è solo agli inizi. I loro sguardi sono smarriti, attoniti, indifesi, come quelli dei cuccioli. Petr tentenna, Andula sbaglia: la Cecoslovacchia non è terra di sogni. Se pensiamo a Al fuoco pompieri! troviamo solo squallore, mediocrità, ipocrisia, corruzione, rigidità sociale: il concorso di bellezza è un vero e proprio scempio, un teatrino dove le madri si fanno in quattro per condizionare il verdetto. C’è un senso di chiusura in questi primi film, una ristrettezza di spazi, che tuttavia il regista utilizza come una risorsa per raccontare il contesto politico, l’insofferenza e quell’“istinto di libertà”, quella voglia di affrancamento che, sebbene repressi, premono dal profondo di tanti esseri umani.

Angelo Signorelli


Taking Off (1971)

Miloš Forman arriva definitivamente in America nel 1968, da Parigi, dove si è fermato, senza rientrare in Patria, dopo che le truppe sovietiche hanno invaso la Cecoslovacchia, ponendo fine alla Primavera di Praga. Non è la sua prima volta negli Stati Uniti: c'è già stato, ospite con i suoi film al New York Film Festival, e poi per lavorare a un progetto americano propostogli da Moris Ergas (e mai realizzato) e per scrivere insieme a Jean-Claude Carrière la sceneggiatura di un film prodotto insieme a Claude Berri (che sarà poi Taking Off). Nel frattempo, da turista di lusso, ospite internazionale, si è trasformato in "emigrante" e, in quanto tale, impiega un po' di tempo per adattarsi al nuovo sistema che lo circonda e che, seppure in maniera meno esplicita e categorica dell'altro (quello sovietico) dal quale si è allontanato, oppone resistenza al nuovo e all'insolito, fa richieste, dissemina trabocchetti. Per "montare" la produzione di Taking Off ci vogliono circa due anni; il film si concretizza quando la Universal compra i diritti della sceneggiatura di Forman e Carrière e mette a disposizione un budget di 850.000 dollari. Forman potrà girare in libertà (come sta accadendo a molti dei giovani cineasti statunitensi), con il suo direttore della fotografia abituale, Miroslav Ondříček, autore della fotografia di quasi tutti i suoi film precedenti e di molti dei successivi. […]

Taking Off è un'immersione totale nel "nuovo mondo", anche se questo è circoscritto al recinto più familiare e più "europeo" di New York, in particolare l'East Village, un susseguirsi di volti, squarci, stili, ritmi, occhiate, situazioni imbarazzanti o più o meno insolite. Niente di nuovo sotto il sole, è evidente: la piccola borghesia americana, sebbene metropolitana, non è poi tanto diversa da quella ceca. Più ricca certo, ma solo all'apparenza più disinibita (in realtà puritana fino al midollo) e altrettanto petulante e distratta nei rapporti con i figli. Che, a loro volta, girano timidamente ma testardamente su sé stessi, vanno, vengono, inseguono una libertà che comunque fatica a guardare al di là dei confini del Village e a "osare" qualcosa di più di una stressante audizione teatrale.
Forman ha l'occhio acuto e acchiappa al volo la massificazione, già consacrata, degli elementi più vistosi della controcultura (soprattutto hippie): un giovane musicista silenzioso e capellone guadagna cifre astronomiche, i grandi, gli "adulti", fumano erba durante un party istruiti da un figlio dei fiori ripulito e poi, a casa, improvvisano uno strip poker tra coppie, una ragazza suona nuda il violoncello perché, da vestita, nessuno s'interessa al suo strumento. Li osserva, ne coglie i gesti, gli abiti, gli sguardi, gli status symbol, vecchi e nuovi. E, nella lunga sequenza dell'audizione disseminata nel corso del film, coglie soprattutto la disarmante voglia di cambiamento di questi ragazzi, che paiono però non avere la forza necessaria per liberarsi veramente, le "ali" per prendere il volo, per "decollare" (il significato del titolo, nelle sue diverse accezioni).

Emanuela Martini


Hair (1979)

Nel passaggio dall’Europa agli Stati Uniti, Forman accetta il destino cui la Storia l’ha condannato e trasporta nel suo cinema, nel suo metodo di lavoro e nel suo sguardo, la dimensione di spettatore e ascoltatore di una cultura che non gli appartiene. Viene in mente Bromden, l’indiano di Qualcuno volò sul nido del cuculo, nel finale del romanzo di Ken Kesey da cui Forman nel 1975 trarrà l’omonimo film. […] Bromden non corre veloce oltre il giardino della prigione, non getta lunghe falcate nella notte. Nell’ultima inquadratura del film, in una wilderness tipicamente americana, si muove nella penombra a un’andatura compassata, quasi fosse una figurina di cartone dentro un diorama. L’outdoor americano è una terra violata, una pura superficie, il segnale di un mondo da osservare come cultura, come ideologia e soprattutto come rappresentazione.

Hair, in questo senso, è il film decisivo di Forman, l’incontro con il genere (il musical), con la Storia (gli anni della contestazione) e i suoi residui. È un film in costume, il racconto a un decennio di distanza di un’epoca lontana e trasformata in reminiscenza vintage. Un’epoca con cui Forman intrattiene un rapporto ambiguo, legato com’è alla lotta contro il comunismo in Cecoslovacchia e al tempo stesso costretto a riconoscere l’assurdità di un’altra guerra, quella del Vietnam, dichiarata anch’essa contro il comunismo ma condotta contro una generazione di giovani americani non diversi dai ragazzi che a Praga si opponevano ai carri armati sovietici. La risultante di tali divergenze storiche e personali è una messinscena che usa ancora una volta lo spazio americano come palcoscenico. 


Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975)

[...] Nel cinema di Forman il conflitto è sempre individuale e storico-sociale, mette cioè in campo personaggi in competizione e gruppi di individui opposti a un’istituzione repressiva. Ovviamente in tutto questo c’è un residuo delle battaglie contro burocrazia socialista, ma nel periodo americano a prevalere è soprattutto il discorso spesso implicito sulla Storia come rappresentazione, sul cinema come funzione dell’immaginario popolare. In tal senso, la scelta di un romanzo come Ragtime sembra inevitabile. Il romanzo di Doctorow, bestseller del 1975 alla cui trasposizione Forman aveva già lavorato con lo scrittore stesso subito dopo Qualcuno volò sul nido del cuculo, è l’opera per eccellenza del sincretismo culturale americano. Un libro che fa letteralmente a pezzi la storia del paese e di conseguenza la sua narrazione, che procede per capitoli singoli e linee narrative che si incontrano solamente in una dimensione intertestuale o in una sorta di ultra-narrazione.

[…] Il cinema americano, o meglio ancora il cinema “sull’America” di Forman è un cinema della distanza, formalmente controllato, magari anche compassato, ma attraversato da brividi e fratture. Almeno fino al 1999, anno di Man on the Moon e della biografica di Andy Kaufman, rispetto al suo rapporto con gli Stati Uniti Forman rimane invischiato in un evidente tormento interiore. In Larry Flint - Oltre lo scandalo (1996) l’America è ancora presente come spettacolo e rappresentazione (ad esempio, nella scena della festa per il bicentenario, tra divise militare del ’700, bandiere stelle e strisce, festini lesbo e anziani ignari e bigotti), con Forman che si limita a esporre il conflitto fra l’ambiguità morale della pornografia e la libertà d’espressione difesa dal primo emendamento della Costituzione. Più che innescare un cortocircuito nel sistema ideologico americano, Larry Flynt mette in crisi Forman stesso; non a caso tutto il film è giocato sulla doppiezza e sul contrasto fra le discutibili azioni di una figura non irreprensibile e la sacrosanta battaglia che combatte contro le istituzioni.


Man on the Moon (1999)

Andy Kaufman, invece, il magnifico, folle, geniale, incomprensibile fool di Man on the Moon è una figura fuori da ogni logica morale, uno showman che porta il cinema di Forman oltre l’azione, oltre il realismo della superficie e (letteralmente, fin dalla prima scena) oltre i limiti della cornice. Man on the Moon è un biopic a tutti gli effetti: non, però, sulla vita del suo protagonista, ma su quel mondo dell’indistinto, dell’imperscrutabile e della convergenza fra Storia e immaginario, fra partecipazione e distanza, che è lo spettacolo americano. Alle prese con un personaggio che ammira e non capisce, Forman si mette totalmente al servizio della sua creatività distruttiva. E costruendo la finzione a partire dall’idea di spettacolo di Kaufman – fondata sul confine indistinguibile fra performance e realtà – porta a compimento ciò che aveva avviato con Ragtime: l’incertezza della struttura, la mancanza di logica di una narrazione “completa”, la rappresentazione che finalmente svela il vuoto su cui poggia… E Kaufman stesso, sdoppiato dal suo alter ego Tony Clifton, capace di far proseguire la finzione nel tempo della realtà (come nel numero con il Grande Gatsby), costretto anche nella morte a prendersi gioco della vita, fa saltare il biopic inteso come genere e risolve con la sua figura pienamente compiuta solo nella dimensione dello spettacolo e della “superficie” la contraddizione – fondamentale per il cinema di Forman – fra partecipazione e negazione, presenza e invisibilità, storia e immaginario.

Roberto Manassero