Perché amiamo Jerry Lewis?

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Una quindicina di anni fa Rae Beth Gordon, accademica americana, docente di letteratura francese e comparatistica, intitolò un suo fortunato saggio: Why the French Love Jerry Lewis. Nel volume – uno studio delle origini del cinema fra i cabaret parigini di fine Ottocento e le patologie nervose che influenzavano la gestualità degli attori del muto – in realtà di Jerry Lewis si parla molto poco. Eppure la domanda del perché i francesi (che dalla prospettiva degli americani, in senso allargato, vuol dire tutti coloro che guardano il cinema con un occhio un po’ più appassionato, smaliziato e cinefilo) e quindi tutti noi, amiamo un artista come Lewis è assolutamente fondamentale. Ed è una domanda alla quale – forse – non sappiamo rispondere.

Perché quella del comico di Newark è sempre stata una comicità elementare, fatta di una gestualità infantile e che sembra la parodia o la presa in giro di qualcosa o di qualcuno (delle smorfie dei ragazzini spastici dicevano alcuni, motivo di tante critiche fatte all’attore sin dai dagli esordi). E che per questo spiazza, pare più ridicola che buffa e si porta dentro un che di puerile, di sciocco e anche di grottesco. Eppure quella di Lewis è sempre stata una comicità ricca, sfaccettata e al passo coi tempi.

Una comicità nata quasi per caso nei teatri di provincia, ma che ha trovato compimento e un suo senso estetico soprattutto al cinema. Jerry Lewis è stato uno straordinario attore cinematografico, capace di recitare – come solo i grandi attori, non solo comici, sanno fare – utilizzando tutto il corpo. E che si è saputo esaltare mettendosi in scena, nel solco della migliore tradizione comica cinematografica, da solo. Come Chaplin e i grandi comici – guarda a caso – francesi come Pierre Etaix o Jacques Tati anche Lewis emancipatosi dal sodalizio con Dean Martin (certo fondamentale, ma senza dubbio limitante), ha iniziato a scrivere, dirigere e recitare come un vero Autore.

E dopo i diciassette film in dieci anni in coppia con Martin – che sono quelli per cui più sarà ricordato – e alcuni altri decisamente trascurabili, sono arrivati i film che ne hanno rivelato il talento. A cominciare da Ragazzo tuttofare (Bellboy, 1960) prima opera di cui è autore, regista, interprete e produttore e nel quale non esiste una vera trama, solo una serie di sketch e in cui Jerry non dice una parola dall’inizio alla fine. Riportando la propria comicità al grado zero, omaggiando il muto e diventando artista totale, Lewis sancisce l’uscita da una meccanica mainstream del mestiere del cinema che continuerà a rifiutare fino alla fine della carriera. Si prende gioco di Hollywood spiegando il film prima dell’inizio del film stesso – come farà poi anche in Il mattatore di Hollywood (The Errand Boy, 1961) – giocando con la modernità e guardando curioso, fatalmente, il cinema d’oltreoceano che a quei tempi ricambiava lo sguardo compiaciuto.

Certo, ai «Cahiers» Lewis piaceva, e soprattutto a Godard e quasi subito era diventata una questione politica (e non solo di politica degli autori). Poco prima che in patria cominciasse a perdere consensi e la critica, troppo affezionata ai musicarelli con Dean Martin, iniziasse a stroncarlo, i giovani turchi l’avevano già messo su un altare riconoscendogli un estro e una genialità quasi senza pari. Come, d’altronde, senza pari è l’assoluta libertà stilistica dei film citati e dello stupefacente Jerry 8¾ (The Patsy, 1964), o l’estrema raffinatezza compositiva di L’idolo delle donne (The Ladies Man, 1961), nel quale si nota, da parte del Jerry Lewis regista, la raggiunta capacità di dirigersi e di usare il corpo in maniera pienamente consapevole. E poi la grande attitudine alla parodia, genere del quale è stato uno dei primi e più grandi interpreti. Con Le folli notti del dottor Jerryll (The Nutty Professor, 1963) non firma soltanto il suo capolavoro, ma anche un’opera anarchica e travolgente che ragiona sulla crisi del maschio e ne mette in scena la castrazione in un periodo in cui gli stereotipi e la cultura di massa andavano in direzione opposta. Un equilibrio fra l’essenzialità e l’evidenza della messa in scena, la sovrabbondanza eccentrica della recitazione e la compiutezza della costruzione parodica che non avrebbe mai più raggiunto.

E in effetti, quello che è venuto dopo, con opere sempre un po’ laterali, esterne alle convenzioni e alle mode – compreso il film “invisibile” e ammantato di mistero The Day the Clown Cried (1972) – restano un po’ sullo sfondo della sua incredibile carriera. Anche perché quando il cinema della New Hollywood – che tanto gli doveva – lo sorpassò a gran velocità, le vicende del suo Picchiatello erano ormai diventate poco più che favole della buonanotte.

Eppure la consacrazione grazie alla sensibilità di Scorsese in Re per una notte (The King of Comedy, 1983) gli rese l’omaggio – e il congedo – che si meritava e che pochi altri attori comici hanno potuto vantare. Il resto sono storie che si raccontano nei salotti della tv o nei teatri di Las Vegas, storie che ci interessano poco e che dimenticheremo presto.

No, non lo sappiamo veramente perché amiamo così tanto Jerry Lewis. Quello che sappiamo, soprattutto oggi che c’ha lasciato, è che è impossibile non farlo. E forse questo ci basta.