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Nel programma del Lovers c’è una nuova sezione, Irregular Lovers. Concorso iconoclasta, che è dedicata al cinema cosiddetto sperimentale o meno formalmente convenzionale, meno facile da definire. Il festival ha coinvolto alcune delle principali testate di critica cinematografica on line chiedendo a ognuna di queste di “adottare” uno tra i 14 titoli della sezione promuovendolo. Il vincitore della sezione avrà la possibilità di frequentare una Residenza d’Artista e il suo film sarà proiettato al Centre d’Art Contemporain di Ginevra nonché alla prossima edizione di Artissima. Noi di Cineforum abbiamo scelto un film piccolo, appena 22 minuti, di una giovane regista svedese che ha scelto di partire da una riflessione sul narcisismo come questione che travalica il genere per avventurarsi, attraverso uno sguardo molto personale, in una messa in discussione più profonda e articolata del concetto di limite: Mephobia di Mika Gustafson

Mephobia è un film di forze vive. Un po’ come nel teorema con cui tutti abbiamo familiarizzato nelle ore di fisica al liceo, Mephobia è un corpo mobile che possiede un’energia esplosiva data dalla somma dell’energia intrinseca alla materia di cui si occupa con il lavoro libero, vigoroso che la regista compie sulle immagini.

L’energia dello sguardo di Mika Gustafson scaturisce infatti dall’immediatezza assoluta con cui si butta in medias res liberando il racconto da qualsivoglia imposizione (di messa in scena, di quadro, di narrazione). Continuiamo a essere comunque pienamente nel campo dell’immagine mediata (più vicino per certi versi al cinema di Harmony Korine che non a sperimentazioni post cinematografiche come quella dei Leo Gabin di A Crackup at the Race Riots), un’immagine o immagini in cui lo sguardo della regista ma anche dello spettatore è indotto a interrogarsi non sulla perdita di significato delle stesse (come nell’opera dei Leo Gabin appunto) ma sulla messa in discussine del loro limite, e non solo.

Si potrebbe addirittura dire che Mephobia è essenzialmente un film sul limite o, meglio sul suo scivolamento. Lo scivolamento del limite delle inclinazioni narcisistiche verso la patologia (fino alle derive paradossali evocate dal titolo), quello delle presunte specificità di genere (non è forse il narcisismo un atteggiamento psicologico prevalentemente maschile?) verso un rimescolamento che ne presuppone la ridefinizione stessa, quello dell’accettabilità sociale di un habitus comportamentale (emblematica la scena di vessazione nei confronti delle bambine che assume per le protagoniste un valore quasi “pedagogico”) e poi, come detto, quello vero e proprio dell’immagine.

Mephobia è infatti un film costruito intorno alla messa in discussione del limite riconosciuto e della sua codificabile necessità; per questo tutto si carica di provocazione, quella degli atteggiamenti, degli abiti, dei modi delle protagoniste ma anche e soprattutto quella delle loro parole. Tutti parlano di sesso, di corpi, di organi genitali, di sensualità, di seduzione ma sostanzialmente ne parlano e basta (anche l’unico vero accadimento, quello finale, si risolve in fondo in un mero exploit). Come se la ridefinizione dei limiti potesse passare essenzialmente attraverso l’energia sovversiva della parola lasciando la carne, il sesso, il corpo, per davvero, scivolare nel fuori campo, come se in fin dei conti per il movimento, o meglio per il sovvertimento, quell’energia non fosse realmente necessaria.