Omaggio a Hoffman (4): "Le Idi di marzo"

Bellissima pinguedine

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La prima immagine che torna in mente del grandissimo Phil Seymour Hoffman è quella di Le Idi di marzo.

Una in particolare, in cui l’attore non sta neanche dicendo chissà che. Non è nemmeno inquadrato in primo piano, né in mezza figura. È in figura intera, non in piedi, ma disteso sul letto, impegnato al cellulare. Niente di più anonimo, opaco, insignificante. Eppure è questa perfezione assoluta nel caratterizzare un momento inizialmente non drammatico, ma che sta per diventarlo, a rendere indimenticabile l’istante che preannuncia la tempesta.

Nel film di George Clooney l’ottimo Hoffman, come spesso accadeva, non era il protagonista. Ma di gran lunga il personaggio più eccentrico, indimenticabile, calato perfettamente nel suo ruolo. Di più: sarebbe difficile immaginare quel ruolo o quella tipologia di personaggio diversamente da come l’ha disegnato lui. Una sorta di imprimatur.

Il ruolo è quello di Paul Zara, l’addetto stampa anziano del governatore Morris candidato presidente degli Stati Uniti in corsa per le primarie del Partito Democratico. Il giovane, ambizioso e dinamico assistente Stephen Meyers ha intanto incontrato Tom Duffy, l’addetto stampa del candidato avversario, senza dirlo a Paul se non a cosa fatte. Paul non ha preso bene la cosa. Stephen lo raggiunge nella sua camera d’albergo per dirgli anche che la notizia è trapelata. Stephen non sa, come non lo sa lo spettatore, che è stato proprio Paul a diffonderla, perché questo gli offre il pretesto per licenziarlo. Paul non accetta nulla che pur lontanamente può essere considerato un atto di slealtà. Forse è soltanto paranoico. Comunque sia, Paul si prepara a essere franco e spietato con Stephen.

La scena comincia con un’inquadratura fissa. In campo medio vediamo Paul disteso sul letto, completamente vestito. Un paio di frasi al telefono (con Morris). La macchina da presa è posizionata all’esterno della sua stanza da letto, nel piccolo vano allestito a salotto dove tra breve comunicherà a Stephen l’intenzione di licenziarlo. Tutto ciò che avverrà di lì a poco farà impressione. Ma questa prima inquadratura, in pochi istanti ha il dono di far comprendere meglio la decisione del personaggio.

Se si riposa è per poco tempo. Il letto è uno dei tanti luoghi in cui si consuma la sua attività frenetica che dura ormai da decenni. C’è un letto, ma non offre realmente riposo. Oltretutto è un letto d’albergo, un albergo confortevole, che suggerisce la dorata precarietà del tipo di lavoro che non si svolge in un luogo fisso, stabile. In una cornice di instabilità a largo spettro e di nevrosi professionale, in cui non si può dormire o se si sta distesi occorre restare vestiti, pronti a scattare, a far fronte a insidie, a cercare in ogni modo di vincere la partita elettorale che il candidato delega al capo ufficio stampa, è comprensibile ritenere fondamentale la lealtà.

Quando tutto non poggia su fondamenta sicure, quando si vive/lavora in nessun luogo e in corsa contro il tempo, un valore, credibile o meno, come la lealtà o la deontologia può rappresentare un’ancora di certezza autoreferenziale. Paul ci crede e grava con il suo corpo più gonfio che flaccido su questa idea fissa, più importante dell’obiettivo di vincere le primarie. Ci crede come può uno come lui dall’aspetto maturo e infantile, solido, piazzato ma anche estremamente umorale e impulsivo, senza vie di mezzo. Senza ripensamenti o compassione per gli errori altrui. 

Pochi minuti dopo lo vediamo ascoltare con le braccia poggiate sulla sua stessa pancia il brillante e insostituibile stretto collaboratore che ha deciso comunque di licenziare. Paul è esageratamente implacabile, forse perché l’interlocutore se lo merita, forse solo perché troppo bravo, troppo giovane, troppo dinamico, troppo competitivo. Più che un’azione la sua è una reazione preventiva, giustificata da ciò che dopo accadrà, a suon di colpi di scena e di slealtà divenuta istinto di sopravvivenza/sopraffazione. Ma la cosa più importante è che tutto questo l’abbiamo intuito con un semplice colpo d’occhio, da quell’attore con la camicia che riesce a stare nei pantaloni ma a stento trattiene la grossa pancia. Che è il segno fisico, adiposo di un’esistenza di stress necessario, di tensione permanente, di consunzione, di cattiva alimentazione. 

Il tutto si traduce in pinguedine ambivalente: di chi è costretto dal ruolo a restare gravemente sulle proprie posizioni, anche a costo di sbagliare, non importa, ma soprattutto di chi ha scelto di condurre uno stile di vita insostenibile, lasciarsi andare a un’obesità normale ma nondimeno devastante, dove è giocoforza riempirsi in tutti i sensi, fino ad esplodere. Senza potersi permettere il lusso di invecchiare, di calmarsi, di fermarsi.

Nella finzione del film: accettare la sconfitta e illudersi di invecchiare come consulente a Farragut North, in K. Street, con uno stipendio di un milione l’anno e “nessuno che ti frega”. Troppo bello per essere vero. Non lo è infatti.

Fuori dalla finzione: purtroppo il destino tragico di Philip Seymour Hoffman, il più grande attore americano della sua generazione e uno dei più grandi di tutti i tempi.