La miniserie HBO creata da David E. Kelley e diretta da Jean-Marc Vallée

Big Little Lies

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Basata sull'omonimo romanzo di Liane Moriarty, creata per HBO da David E. Kelley e diretta da Jean-Marc Vallée, la miniserie in sette puntate Big Little Lies si propone, con slancio femminista e fare temerario (e nelle mani fortunate di un ambizioso cast al femminile) di mettere in scena senza filtri un mondo che, nelle parole di una delle sue protagoniste, la manager miliardaria Renata (Laura Dern), "has gone to hell", è andato in malora. E lo fa sfidando i tabù di una violenza sfaccettata e travolgente che contamina – come (e con) l'arrivo di una modesta e compromessa ragazza madre, la Jane Chapman di Shailene Woodley – il paradiso in terra di Monterey, California, un eden di ville vista mare, amori passionali e invidie di ogni sorta, oltre che delle "wonderful families" disegnate negli alberi genealogici dei piccoli studenti.

Il crime plot, con la sua tradizionale costruzione causa-effetto – il cui risultato, "Somebody's Dead", coincide con il titolo del primo episodio – permette di giocare con i classici meccanismi di suspense, sbrogliando i fili dell'intenso dramma che intreccia le vite delle protagoniste e ammiccando allo spettatore/detective che, al pari e a fianco degli agenti di polizia, ha la possibilità e il dovere di indagare, interrogare, andare più a fondo. La direzione che imbocca la serie corre parallela all'indagine, in uno svolgimento non semplicemente lineare ma trasversale e con un movimento che va dall'esterno all'interno, dall'apparenza all'essere, dallo stereotipo alla persona – fino a entrare letteralmente nel corpo di Celeste (Nicole Kidman), un’altra delle protagoniste, un’ex avvocato molestata dal marito, nella turbata soggettiva che segue all'omicidio.

La macchina da presa, spietata come i personaggi che ritrae, invade gli spazi intimi degli individui, arrivando con anticipo a conoscerne i segreti più inconfessabili – prima ancora della psicanalista, della migliore amica o del marito. Attraverso il vetro della stanza degli interrogatori, tramite il condotto dell'aria della casa di Celeste e oltre la porta socchiusa dei flashback di Jane, l'occhio della macchina usurpa gli spazi e i momenti più privati dei personaggi. Ma lo fa taciturno, in un silenzio – spesso obbligato – che segnala la falsità delle apparenze, le "big little lies", e che definisce, traumatico, i ricordi violenti delle protagoniste. Un mutismo che allo stesso tempo paralizza corpo e mente, passibili di risvegliarsi solo a condizione che il silenzio stesso venga infranto nello svelamento del segreto. Ma, prima della rivelazione, i momenti taciuti o messi a tacere si susseguono molteplici, punteggiati dal coro giudizioso dei personaggi di contorno negli interrogatori della polizia, le cui parole non si limitano a commentare incuranti le storie delle donne, ma ne mettono in dubbio la buona fede.

Nondimeno, l'irruzione nelle loro vite, via via più impassibile e sempre più meticolosa, mette in luce la verità che informa i dubbi dei personaggi secondari, rivelando come di fatto chiunque potrebbe essere il carnefice e chiunque la vittima del misterioso omicidio. Perché la violenza dell'assassinio finale non è che la punta dell'iceberg di una forza crudele e irrefrenabile che sfregia l'esistenza femminile – e che non risparmia nessuno.

In tutte le sue forme – dal bullismo infantile allo stupro, dall'aggressione verbale a quella fisica – in Big Little Lies la violenza si esibisce senza censura né filtri, sciolta dalle catene di quel puritanesimo ipocrita che allo stesso modo informa la commissione contraria allo spettacolo di Joseph e Madeline (quest'ultima interpretata da Reese Witherspoon e forse la vera protagonista della miniserie, madre nullafacente e irresistibile vipera vendicativa),  vittima del bigottismo istituzionale che lo dichiara inopportuno per una sola scena di sesso, altro storico tabù culturale.

Lo spettacolo dei burattini replica e riflette una dicotomia, quella tra adulto e bambino, tra maturità e infantilismo, tra corruzione e innocenza che della serie pare essere fondamento, ma che allo stesso tempo non trova confine né soluzione – se non nel locus amoenus del finale, quell'artificiale spensieratezza priva di antagonismi capace in un breve momento di conciliare i due mondi, due universi opposti e complementari che nel corso della serie si scontrano e confondono senza interruzione. C'è sempre, precisa e puntuale, un'implicazione adulta nell'ingenuo microcosmo dei bambini, dove le questioni più complesse sono trattate con infantilismo, dalla sessualità tra burattini alla violenza del bullismo negli ambienti di gioco; perché a macchiare la naturale innocenza dei figli non è il DNA vizioso dei genitori, ma il loro comportamento, fallace e difettoso, che per quanto “segreto” arriva a contaminare anche l'esperienza dei più piccoli. Ed è proprio l'imitazione dell'adulto – da quella più ingenua di Chloe a quella più radicale di Max – ad avvelenare il loro mondo incorrotto. Quell'adulto che è a sua volta un abile simulatore, dal principio fino alla fine, nella menzogna estrema e definitiva durante la serata di beneficienza – tra Elvis male interpretati e Audrey Hepburn dissolute.

L'ultima simulazione è vendetta e rigenerazione; per la vittima degli abusi, per l'intera condizione femminile e per quel piccolo universo finalmente riequilibrato dopo lo scontro vittorioso con il nemico supremo, attraverso una furia omicida che, assimilata alle onde che si infrangono sugli scogli nel montaggio finale, è espressione pura e travolgente della forza femminile, di cui il mare si fa complice quale fonte di energia e rinascita – come è evidente, sin dal principio, nei flashback di Jane.

Un oceano in tempesta che è personificazione di un'altra violenza, altrettanto feroce, ma, finalmente, benefica e risolutoria.