Concorso: "Violet" e "Wir Waren Konige"

L'ambizione e la morale

focus top image

Il  belga-olandese Violet di Bas Devos tenta, con smisurata ambizione cinefila, di raccontare con le immagini (i dialoghi sono davvero pochi) il sentimento del lutto e la sensazione di vuoto che viene a crearsi nella vita dell’adolescente Jonas, dopo essere stato testimone, suo malgrado, dell’omicidio dell’amico Jesse, come lui appassionato di BMX. 

Jonas non riesce a superare lo choc, i suoi giorni diventano muti e senza tempo, le famiglie coinvolte sono paralizzate dal dolore, i ragazzi del quartiere girano in bici lungo strade vuote e anonime, attorno soltanto villette a schiera e tanta solitudine. 

Violet non è molto altro da questo. Pur attraversato, in non pochi momenti, da immagini di inconsueta potenza e suggestione (il lentissimo zoom che stringe sul volto di Jonas illuminato dalle luci stroboscopiche, le acrobazie degli amici che  “volano” in sella alle BMX), il film di Devos soffre di un’evidente artificiosità, per non dire del debito, altrettanto palese, verso il cinema di Gus Van Sant: troppo insistita la ricerca di inquadrature stilizzate - si arriva a voler mostrare, nelle scene in interni a macchina fissa, il luccichio della polvere nella penombra, le rifrazioni del sole su una parete... - accademici gli inserti e le contaminazioni di “videoarte” che spezzano la continuità del racconto, l'espressività dreyeriana dei primissimi piani, il formato 4:3. Tutto bello (a volte) ma anche freddo e inerte. 

Di impianto più tradizionale il tedesco Wir Waren Konige (The Kings Surrender) di Philipp Leinemann, che attorno alle vicende di un’unità speciale della polizia – e dei traffici non proprio limpidi nei quali alcuni loro membri, si scoprirà, risultano implicati – costruisce un torbido e cupo noir metropolitano (“spaventoso è l’ultimo sguardo dell’innocenza perduta” recita la frase di Ghoete che scorre sui titoli di testa). 

Ambientato in una città senza nome, pieno di azione, ruvidezze, birra e scazzottate virili, l'opera seconda di Leinemann racconta in maniera efficace una vicenda di tradimenti, sospetti e false alleanze. A un certo punto si fronteggiano due gang giovanili, ci sono degli omicidi, una pistola che non si trova e c'è soprattutto Nasim, un tredicenne che a forza di intrufolarsi in mezzo ai “grandi” potrebbe saperne più di tutti. 

L’amicizia e la lealtà, per non dire la giustizia, sembra dirci Leinemann, non sono quasi mai dove uno si aspetta di trovarle. A  dispetto di una prima ora molto promettente (ottima la scena iniziale dell’irruzione) nella seconda parte ci si attarda, ormai senza più molta convinzione, a seguire un groviglio di situazioni e colpi di scena che hanno smarrito una vera necessità narrativa, se non quella di aprire la strada a un finale convenzionale e moraleggiante