Afterhours

Chi mi ha incontrato, non mi ha visto di Bruno Bigoni

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Nel lavoro del documentarista l’adesione all’argomento del proprio film assume spesso le forme di un innamoramento, una dimensione immersivo-ossessiva che, nella ricerca storica e filologica dovrebbe essere sempre, almeno sulla carta, sconsigliata. Bruno Bigoni, ci casca, o forse è il caso di dire che fa cascare noi, con il suo Chi mi ha incontrato non mi ha visto, presentato prima al Torino Film Festival e ora a Filmmaker, nella sua Milano.

Bruno sta lavorando a «una serie di illuminazioni» su Arthur Rimbaud (immaginiamo dall’omonima raccolta del poeta francese), ma è a un punto morto. Viene contattato da una misteriosa signora, che ha avuto il contatto da un rigattiere dove il regista aveva comprato un disco con registrazioni rare dall’opera del poeta. La signora ha qualcosa per lui. Un appuntamento ai giardini di via Palestro, lontano da occhi indiscreti (ma documentando, indiscretamente, tutto), per vedere la fotocopia, sbiadita, di un’albumina che rappresenterebbe Rimbaud poco tempo prima di morire, a Marsiglia, la gamba già amputata e, stretto nella mano, un foglio che sarebbe autografo, con un abbozzo di versi inediti.

Una testimonianza completamente nuova o una contraffazione? E poi perché proprio lui? Perché proprio ora? La signora ha bisogno di soldi, la foto, a suo dire, sarebbe stata scattata da suo bisnonno, il dottor Pluyette dell’Hôpital de la Conception di Marsiglia. Le carte, non importa sapere se il mazzo è sano o truccato, sono scoperte da subito. Bigoni non si premura di camuffare del tutto le parti staged di questo suo film: anzi, a visione ultimata è legittimo pensare che sia tutto una costruzione, che sia tutto un mockumentary.

«Nessuno sa che questa foto è nelle mie mani, perché nessuno sa che questa foto esiste»: gli aspetti mistery, alla Dylan Dog più che alla Edgar Allan Poe, sono disseminati nel corso del film. Che cerca però di riportare continuamente i piedi per terra, per esempio con l’incontro col filologo Renato Minore, che confessa che anche a lui era stato proposto l’acquisto di una foto, in quel caso del periodo africano del poeta, che mostrava la connessione di quest’ultimo con l’attività di contrabbando di armi e forse anche di schiavi; in fondo, Minore è felice di non aver acquistato il documento, per salvaguardare il SUO Rimbaud. Poi c’è Minnie Ferrara, la moglie e produttrice di Bruno, che nelle immagini rubate alla venditrice misteriosa non vede proprio niente, ma già ha capito come andrà a finire.

«Cosa mi dovrebbe far pensare che questo è Rimbaud?» «La mia parola». Più o meno volontariamente Bigoni mette sulla bocca della sfuggente signora francese la chiave di volta, potentemente ambigua, del fare documentario: è la parola ad organizzare il senso delle immagini, delle situazioni e delle cose mostrate, la loro oggettività, a validarne lo statuto. Un senso dell’immagine imperfetta, della replica, dell’ombra vaga rubata da una go-pro nascosta, che ha bisogno di essere sostanziata dalla parola, e che però va un po’ in crisi quando, venduto il Pelizza e altre cianfrusaglie a un antiquario (che però è il bravo Alessandro Quattro, cioè un attore) e i dischi a un amico, finalmente, nel famedio del Cimitero Monumentale, Bruno ottiene la foto originale, montata su cartone: la visione, la messa in presenza, non più di una fotocopia, ma di un oggetto che porta su di sé i segni del tempo, la patina e le lacerazioni, allenta le resistenze dello spettatore. È un oggetto che non  passa tuttavia alla prova della filologia, di fronte alla conservatrice del Musée Rimbaud di Charleville. La foto è autentica, non c'è nessuna prova che il soggetto rappresentato sia il poeta morente.

Da cosa ci deriva l’ossessione per la filologia? A che punto siamo noi che chiediamo al documento di dire quello che vorremmo sentirci dire? La risposta di Renato Minore un po’ l’abbiamo già intuita. Siamo noi a reputarci sguardi puri e corretti, e a pretendere dal documentario, come dal documento d’archivio, un segmento di verità inconfutabile? Ma il documentario, sembra ricordarci Bigoni con questo suo pastiche, può essere la più bastarda delle forme cinematografiche, e allo stesso tempo non sottrarsi alla necessità di cercare o suggerire la verità: così come per Roberto Longhi e Umberto Barbaro, in un film che conosco fin troppo bene, volevano credere (e far credere) davvero che in Manet sopravvivesse l’arte di Carpaccio, arrivando a manipolare l’immagine; così l’idealista Bigoni, evidentemente, non vuole rassegnarsi all’idea che per quasi vent’anni Rimbaud abbia rinunciato alla poesia per darsi a una vita materialista e, quel che è peggio, collusa con il peggior colonialismo. Piuttosto vuole credere che perlomeno la sofferenza fisica estrema riaccendesse una fiamma che tutti consideravano spenta, e, se la foto non è una conferma, forse una voce, la voce di uno che ha vissuto una stagione all’inferno, potrà convincerci.