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La cordillera di Santiago Mitre

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La cordigliera del titolo è quella andina che separa geograficamente il Cile dall’Argentina e il film è incentrato su un summit fra tutti gli stati Sudamericani – più il Messico – che si tiene proprio sulla cordigliera cilena e che mira a stabilire degli accordi unilaterali in merito alle politiche petrolifere delle nazioni coinvolte. Mentre i capi di stato di tutti i paesi si riuniscono nell’hotel a 3000 metri di altezza che li ospita, il presidente argentino Hernán Blanco, in volo per il Cile, deve contemporaneamente cercare di arginare uno scandalo finanziario che coinvolge l’ex marito della figlia e che può ripercuotersi su di lui.

Mitre orchestra un dramma politico in piena regola. Solido, teso, hitchcokiano. Il presidente argentino, intorno a cui ruota tutta la vicenda, è un politico intransigente, senza macchia e con un trascorso proletario. «Un hombre como voz» come recita lo slogan della campagna elettorale ripetuto scherzosamente dalla figlia, con origini proletarie, che cita Marx e vanta un passato limpido e immacolato. Un cittadino al servizio dei cittadini che lentamente si trasforma in un uomo di potere, capace di scendere a compromessi e a sporcarsi le mani. La perdita della verginità politica di Blanco è raccontata con le modalità di un dramma che nelle svolte narrative ha l’incedere di un vero e proprio thriller. Il presidente, che austero e impassibile, affronta gli eventi senza mai perdere la calma, impara a giocare secondo le regole e, proprio come il personaggio di un giallo hitchockiano, a tirarsi fuori dai guai senza farsi trascinare dagli eventi.

Come in tanto cinema (e televisione) recente, il regista punta alla costruzione di una figura politica la cui sorte è minacciata dalla sovrapposizione fra la sfera pubblica e quella privata. Tuttavia la questione è affrontata da una prospettiva interna che è focalizzata completamente sul personaggio principale. Raccontato con linearità, il film procede come un susseguirsi di situazioni narrative che alternano senza soluzione di continuità le due sfere della vita di Blanco e all’interno delle quali l’uomo è sempre al centro. Circondato da colleghi, uomini dello staff o parenti, Blanco – eccetto che nella prima inquadratura in cui compare – non è mai da solo. E se spesso ciò che è in campo con lui rimane sfuocato nel background, egli occupa sempre il centro dell’immagine. Perché prima che definirlo dalle scelte e dalle azioni che intraprende, Mitre sembra interessato a dipingerlo come un corpo, come una figura che sta nello spazio e che quello spazio lo occupa fisicamente. Un hombre vertical in tutto e per tutto, la cui prossemica (come è prassi per gli uomini politici) ha quasi più risalto delle parole che pronuncia.

A fargli da sfondo, inoltre, è un paesaggio lunare – quello della cordigliera – che è esso stesso uno spazio vuoto pronto a essere occupato, conquistato. Uno spazio da dominare in un certo senso, dato che la catena andina si snoda come un serpente da nord a sud per tutta quell’America Latina che il summit ha il fine di decidere come sfruttare (violare) attraverso l’estrazione del petrolio. Un luogo che il titolo nomina non a caso, che identifica un continente (quale altra cordigliera esiste che non sia quella delle Ande?) da sempre territorio da colonizzare e che è l’obiettivo del “diavolo” per eccellenza: gli Stati Uniti. E il diavolo, del resto, viene citato direttamente dal protagonista quando egli racconta un sogno d’infanzia a un medico chiamato ad assistere la figlia. E non è un caso che l’astuzia – e la riuscita trasformazione di Blanco in Presidente – avvenga nel momento in cui anche gli accordi con gli americani (del nord) vengono piegati al tornaconto politico (e personale?) del protagonista. Come se per essere davvero un capo di stato non sia necessario perdere solo la verginità, ma soprattutto l’anima.