Onde

La madre, el hijo y la abuela di Benjamin Brunet

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Cristòbal, “l'adottato”, è tornato nel luogo in cui è nato. Così ci dice una didascalia, il titolo del primo capitolo. Le immagini, invece, dicono di una casa in rovina, il luogo di una catastrofe, e un giovane uomo che si concede, nudo, all'autoscatto di una macchina fotografica, con un sacco in testa. Cristòbal il fotografo, che risale la corrente e cerca un senso, una nascita, tra i resti polverosi della sua vita. Guarda, inquadra, scatta. Tra gli edifici distrutti e i panorami mozzafiato di Chaitén, in Cile, alle pendici di un vulcano (che eruttò nel 2008). Guarda, inquadra e colloca se stesso nell'inquadratura, su un divano, seduto a un tavolo in cucina, davanti a una tomba; usa l'obiettivo come uno specchio da attraversare, per passare dalla dimensione dell'osservatore a quella dell'osservato, dallo sguardo alla vita, dal cinema alla realtà.

Benjamin Brunet lo segue, lo accompagna, lo guarda mentre si guarda, sta dietro e davanti l'obiettivo. Si prende tutto il tempo necessario a percepire il vuoto, e si vede che è in cammino anche lui, in prima persona. Si vede, soprattutto, che sa come guardare. Lo si capisce quando nella storia entrano Ana e Maria, una donna e la sua madre anziana, che decidono di ospitare Cristòbal nella loro casa (loro che hanno perso il figlio-nipote, ormai lontano, con una sua vita e un suo lavoro). Ana e Maria, la madre e la nonna, che all'inizio sono un luogo anche loro, qualcosa da fotografare, dentro cui collocare la propria ricerca. Ma la cui realtà (che volti!) si impone alla fotografia e al cinema, eccede le possibilità dell'immagine ben inquadrata. Cristòbal si affeziona alla nonna malata – il secondo capitolo - ascolta le sue storie, cura i suoi dolori, finisce per trovare una sua dimensione al di là dell'obiettivo.

Detto così, suona banale, dentro una non-storia che è tutta nella forma, nel modo di guardare le cose. In realtà La madre, el hijo y la abuela è tutto fuorché banale, ama le sfumature, attinge a verità semplici e universali sul dolore, l'amore, la solitudine, la famiglia, pratica la poesia senza lirismi. Brunet ha una straordinaria sensibilità che non sacrifica al rigore, a una scelta di stile. Qui sta addosso ai primissimi piani in camera a mano, che tremano, vibrano, in inquadrature soffocanti, e là si concede una “distanza fotografica” che delinea gli ambienti (interiori), esplora e abita la realtà (con l'occhio di un Ceylan), sorprende la bellezza dei luoghi lasciandola lontana; qui ci lascia in balìa del dolore della nonna, in una scena claustrofobica che non sembra finire mai, e là costruisce momenti onirici che allargano il senso, una volta celeste che si muove veloce, una pioggia al contrario in bianco e nero; qui cerca l'inquadratura-fotografia, aggiusta il fuoco, mette in scena la famiglia, e là si abbandona finalmente alla realtà, dentro un dialogo apparentemente banale, nelle cose della vita quotidiana, la loro verità.

Perché alla fine sparisce anche il cinema, che coincide con la realtà, anzi, con la sua consapevolezza, e siamo al terzo capitolo, in cui Cristòbal non è più “l'autore del progetto fotografico”, il regista del film, lo spettatore, il protagonista della ricerca interiore, ma un pezzo di quella realtà che prosegue attraverso Ana, che ci lascia sospesi insieme alla sua solitudine, nella contraddizione tra la voglia di fuggire e la necessità di restare, ché tanto al vita è solo qui, e solo ora, con tutto il suo dolore, davanti a una tomba, ancora, di nuovo. Ce lo insegna l'ultimo scatto senza immagine, nel buio che rimane. Non è un film per tutti, certamente, ma Brunet è davvero una bella scoperta.