Concorso

Moving On di Yoon Dan-bi

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La casa del nonno sembra vuota e invece è piena di cose. All'inizio non è facile orientarsi, ci vuole un po' per conoscerla e abitarla come si deve, per trovare lo spazio giusto in cui stare da soli o godersi un pranzo in compagnia, in cui giocare, fantasticare, stare male, fare balli scemi, sprofondare nella malinconia. È come una grande sala di attesa, in cui tutti aspettano che accada qualcosa. L'attesa di una fine o di un inizio, un amore acerbo, una nuova vita, un matrimonio che non vuole finire, un futuro che fatica a definirsi. Non è così, la vita, a volte? L'attesa di qualcosa che abbiamo rinviato a domani, senza sapere bene cosa sia.

Okju è una ragazza adolescente, con un broncio perenne, che illumina il mondo quando si scioglie in un sorriso. Donju è il suo fratellino, che la cerca ed è spesso respinto da lei, dai suoi pensieri già grandi. Il padre li ha portati dal nonno, mentre cerca di arrangiarsi vendendo scarpe. La madre se n'è andata e a volte non si presenta neanche quando dovrebbe. Ma c'è la vulcanica zia, anche lei col fardello di un matrimonio sbagliato. Non sappiamo nulla delle loro storie, non è necessario. Qualche sequenza e ci sembra già di conoscerli da sempre.

E il nonno? Una specie di fantasma, una figura diafana, una presenza ingombrante e insieme sfuggente, quasi magica. Non parla mai, ma a volte si anima in piccoli gesti che su di lui diventano enormi: una risata silenziosa, un cenno con la mano, uno zaino sollevato da terra e infilato sulle spalle del nipote in lacrime; brevi momenti di lucidità e calore che animano la casa e l'esistenza di chi la sta attraversando senza sapere dove sta andando.

La giovane regista coreana Yoon Dan-bi (classe 1990), al suo esordio, padroneggia questa materia semplice, trasparente, con una sicurezza e una delicatezza straordinari. Senza mai sentire il bisogno di sottolineare o mettersi in mostra. Non c'è nulla di casuale nella costruzione dell'inquadratura (dalle geometrie alla tavolozza dei colori), quasi sempre in piano medio, mantenendo una distanza che è un gesto di rispetto nei confronti dei suoi personaggi, la loro intimità, ma proprio per questo riesce a restituire la complessità e la profondità dei loro sentimenti (che sono anche i nostri), anche grazie ad interpreti che non sembrano recitare neppure per un attimo. Non c'è nulla di improvvisato nella costruzione narrativa, fatta di piccole cose che prese una per una non sembrano avere alcuna importanza, e invece costruiscono una fitta trama di desideri, dubbi, paure, rimorsi. Ma per quanto ogni dettaglio appaia curato, tutto risulta luminosamente vero e spontaneo. Si racconta una famiglia, niente di più, niente di meno, con tutti i suoi problemi, i piccoli e grandi segreti.

Pudore, ecco a cosa capita di pensare. Che è cosa ben diversa dal rigore. Il rigore può essere esibito, muscolare, quasi trionfalistico nella sua ascetica purezza. Il pudore invece è timido e gentile, non ha paura di sembrare naïf, o di lasciare spazio al non detto. Ha bisogno di poche semplici parole per esprimere un'idea o un sentimento. Basta un'esitazione, un gesto, un certo modo di dormire o cucinare, una richiesta bizzarra frutto dell'insicurezza (Okju chiede al padre i soldi per rifarsi gli occhi), un saluto del nonno nell'orto (che ci rende misteriosamente felici), una canzone d'amore che fa male al cuore perché rievoca una vita che non tornerà più (per qualcun altro, invece, deve ancora cominciare), un momento di vergogna quando i figli decidono che non c'è più posto per l'anziano padre in un casa sua... La vita, semplicemente. La cosa più difficile da raccontare.