Doc/Italiana

Pino di Walter Fasano

focus top image

Il Pino a cui fa riferimento il titolo è Pino Pascali, un gigante, è il caso di ricordarlo subito, dell’arte dello scorso secolo, non solo di quella italiana, scomparso trentatreenne proprio mentre era in corso la Biennale, contestatissima, del 1968, che ne avrebbe premiato il lavoro, a cui era stata dedicata un’intera sala. La sua statura di artista, la potenza e il potenziale delle sue opere furono riconosciuti con una lungimiranza rara da Palma Bucarelli, che all'epoca dirigeva la Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma da più di vent'anni, ma anche da Sandra Pinto, che li studiò allora, e si ritrovò a coprire la stessa posizione di dirigente qualche anno dopo. Quest'ultima se ne è andata proprio in queste ore. Possiamo solo sperare che avrebbe apprezzato il film, ma anche questo tentativo di leggerlo criticamente e storicamente.

Pino è un film su commissione, con delle limitazioni a monte, non da ultimo il fatto che i documenti su cui il film di Walter Fasano può contare sono soprattutto, anche se non soltanto, fotografie degli anni ’60 in bianco e nero: quelle di Pino Musi che documentano l’ingresso di Cinque bachi da setola e un bozzolo al Museo di Polignano, quelle scattate dallo stesso Pascali, e quelle di gran “repertorio”, di Claudio Abate, Elisabetta Catalano, Ugo Mulas. Per raccontare un artista che ha fatto del colore, saturo, industriale, una marca riconoscibile, fin dalla prima mostra alla Galleria della Tartaruga è una limitazione importante, ma stimolate: Fasano si attiene rispettosamente, e usa, per ciò che si vede solo questi documenti preesistenti, in bianco e nero, e immagina, forse proprio a partire della suggestione estetica di questi materiali, una narrazione, sonora, ispirata a Marker, a Resnais, al cinema coevo all’affermazione della figura di Pino come artista.

L’incipit cita esplicitamente quello di La Jetée (1962). Manca però la componente romantica che in Marker era presente, laddove la voce di Suzanne Vega, “prima narratrice”, è un vagamente spersonalizzata, anodina, come d’altronde le tinte «impersonalmente stese» da Pascali fin dalle prime opere.

«Questa è la storia di un uomo segnato da un’immagine della sua infanzia», un’immagine che però non è una spianata di bitume su cui atterrano e decollano gli aerei, ma una grotta, scavata nella pietra calcarea. Si insinua la voce di Alma Jodorowsky, che ripete l’attacco (e la chiusa) di L’Eternité, di Rimbaud «Elle est retrouvée./ Quoi ? – L’Eternité./ C’est la mer allée/ Avec le soleil.», mentre sullo schermo si mostra un tratto di spiaggia dove il sole ha prosciugato ma non del tutto, il bagnasciuga. Una delle opere giustamente più celebri dell’artista pugliese, non a caso, è 32 mq di mare circa (1967), con il mare, o meglio, il colore del mare, ordinatamente conservato in 30 vasche di alluminio zincato, con l’acqua tinta all’anilina, opera di grande impatto e intelligenza, che giustamente non faticò a trovare un posto nelle collezioni della Galleria Nazionale di Arte Moderna. Eh sì, perché le opere vivono, sopravvivono all’autore, anche grazie agli acquisti e alle opere di conservazione: «questo è un magazzino», introduce di nuovo Vega, e le subentra una terza narratrice, in italiano, Monica Guerritore, che legge, non senza palese, pascaliana, ironia, il verbale di acquisizione dei Bachi da setola. «Questo è un magazzino», ripete la voce inglese, «e questa è una galleria» e qui l’ironia si fa un po’ più brutale, perché la galleria illustrata è sì un sottopassaggio stradale dove si vedono opere di street-art,  ma è anche il luogo (o una sua evocazione) in cui l’11 settembre 1968 Pascali perde la vita, in un incidente di moto, la sua jetée.

«Con quello che ha fatto lui in quattro anni un altro artista ci sarebbe campato vent’anni».
Non la trovate in Pino questa battuta, verissima, nella sua brutalità, arriva da altre testimonianze, da frammenti di discorsi di amici e coetanei che si trovano facilmente in rete. Una battuta sulla generosa dissipazione di idee e forme, che sottende il tema della necessità dell’artista di rinnovarsi di fronte al mercato vorace dell’arte contemporanea, sempre a caccia di novità; mercato che in qualche maniera il film di Fasano tende a eludere. Dopo aver studiato scenografia con Toti Scialoja all’Accademia di Roma, Pino lavora per qualche anno in RAI come scenografo, ma anche come autore e regista di caroselli. Lo “scandalo” del primo premio a Robert Rauschenberg, alla Biennale del 1964 lo avrebbe stimolato a intraprendere un cammino che era una risposta a caldo alla Pop-Art americana. Altrove troverete Pascali apparentato all’Arte povera, forse perché fu Gianni, ovvero Yannis Kounellis, a introdurlo al giro delle gallerie Romanie giuste, nel ’64-’65. In verità calzerebbe perfettamente un gioco di parole che Godard fa esattamente negli stessi anni, quando definisce alcuni dei propri film, “un film Po-”: forse l’arte di Pascali non è esclusivamente Arte Pop o Arte Povera, è “Arte Po-”, (-p, -vera, -litica ma soprattutto -etica): «Appena l’hai fatta una cosa è finita. L’arte è un sistema per cambiare», e gli stimoli intorno, a cambiare, a rinnovarsi, a inventare nuove prospettive, sono tantissimi «un ingegno ribollente come la terra dopo che è piovuto». 

Come le riflessioni generate dalla scoperta del Living Theatre, la progressiva apertura verso le arti performative. Ma d’altronde stiamo parlando di una persona che, compratasi una moto, smette di pettinarsi, dicendo “d’ora in poi mi pettina il vento”, e che poco dopo comincia a creare animali preistorici (ri)emersi dal suo subconscio; e poi, di nuovo il mare, la possibilità di pensare l’Ulisse e Collodi nelle stesse forme, fino ai Bachi, appunto, materializzazione di altri archetipi, mediterranei e contadini, realizzata con materiali prodotti industrialmente, gli scovolini per la polvere, e un elemento evanescente, un bozzolo di nylon a spruzzo, creato ad hoc con quattro ragnatele il cui bianco assoluto si confonde col bianco dell’intonaco, diventando indistinguibili dalla parete, ma concettualmente (e anche qui il contratto fa sorridere per la cavillosità, ma è tutto vero) incardinate all’opera.

E poi la Biennale, la disponibilità di Pascali a discutere, dibattere con gli occupanti, non senza contraddittorio. E l’incidente, il cordoglio e il premio postumo. È lì che il film di Fasano sembra sbandare, come la moto di Pino, e rivela l’aspetto un po’ troppo agiografico, e ci si rende conto che le cartucce buone, i filmati di Luca Patella e di Alfredo Leonardi, e, soprattutto le meravigliose fotografie del “ritorno in Puglia” dello stesso Pascali, sono state giocate nella rincorsa di un modello da citare, quello di Marker, appunto, e in qualche misura depotenziate. Per questa ragione, Pino è un’opera su commissione di indubbio valore documentale ma anche un’occasione cinematografica davvero un po’ sprecata.