Concorso

Les Éternels di Pierre-Yves Vanderweerd

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Il Nagorno-Karabakh è una piccola enclave armena a sud-ovest dell’Azerbaigian, che ha, nel suo recente passato, una pulizia etnica ai danni di questa piccola minoranza un conflitto nato dalla dichiarazione d’indipendenza (teoricamente conclusosi nel 1994 con un accordo di sospensione delle ostilità). Il Nagorno-Karabakh è un minuscolo fazzoletto di terra nel Caucaso, dimenticato dal resto del mondo, che, in realtà, continua a essere in guerra.

È questa regione fatta di macerie, di case sventrate dalle bombe, in cui si può guardare attraverso, e di lunghe, lunghissime trincee, che Pierre-Yves Vanderweerd, scegliendo un formato 4:3 dai colori freddi e slavati, mostra nel suo Les Éternels, documentario in concorso al Trento Film Festival. Eppure, il lungometraggio del regista belga non è un film di guerra così come ce lo si potrebbe aspettare: arriva dopo oltre un’ora, quasi in conclusione del film, il primo soldato che non abbia soltanto il fucile puntato ma che spari (e ce ne saranno in tutto soltanto due), mentre non vediamo mai gli eserciti contrapposti né il bersaglio di qeullo sparo, colui dal proiettile viene ferito e, ferito, perde sangue. Le ferite che Les Éternels porta in scena sono infatti piuttosto spirituali, mai fisiche, non sanguinano, non concedono nulla agli amanti del truculento e dello splatter e assomigliano più a un disturbo mentale. I veri protagonisti del documentario sono dunque “gli eterni”, coloro che sono “malati della malinconia dell’eternità”, uomini sopravvissuti alla morte che la guerra dovrebbe naturalmente portare con sé, e che ora sono convinti che essa non potrà raggiungerli mai più. Sono i “rimasti” che hanno perso tutto e tutti, sono i fantasmi di un luogo dove ogni cosa è distrutta e abbandonata, di un passato di affetti e sogni polverizzati.

Diviso in tre capitoli (Joseph, l’uomo che visse ventinove volte dopo Gesù, Karabagh, e Tsnorq, la malinconia dell’eternità), il film di Vanderweerd racconta quindi gli effetti del conflitto, dando vita a un viaggio per immagini al limite della poesia, della spiritualità e della follia, in cui il senso dell’imperversare costante della guerra e della presenza ingombrante della morte viene lasciato a rappresentazioni simboliche: sono le persone che corrono nelle distese deserte, col fiato corto e il cuore a mille, mentre la macchina da presa, rigorosamente in spalla, le insegue, sobbalza, si muove frenetica; sono i rumori di elicotteri e bombe fuori campo; sono “gli eterni” col loro agire tra il leggendario/favolistico e il disturbo post-traumatico. Vivono come superuomini di Nietzsche, questi “eterni”, in un tempo fuori dal tempo, oltre il tempo. Desiderano la morte, pregano Dio per ottenerla, per essere liberati da quella spirale di vita forzata e infinita in cui sono caduti (o pensano di essere caduti?). Una spirale che diventa così base linguistica per l’intero film: si disegnano cerchi con i gessi, le mani si muovono freneticamente in gesti concentrici, si cammina costantemente, sistematicamente attorno a una fontana, attorno ad un punto nella stanza, si ripetono i gesti ancora e ancora e ancora. Il risultato è un film ostico, tutt’altro che confortevole, ossessivo e dai tempi dilatati, ma allo stesso tempo un’esperienza alla quale, se ci si riesce ad abbandonare, diventa un viaggio in un mondo altro, in una mente altra – per quanto al limite del disturbo psichico - fatta di angosce e di dolore.