Al Film Festival di New York (seconda parte)

Da Manhattan al Mississippi. E ritorno

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Si sa che Hollywood ci ha preso gusto negli ultimi anni a raccontare il sud rurale degli Stati Uniti. I film che hanno ambientato le loro storie tra la Georgia e l’Alabama, la Lousiana e il Mississippi, ormai non si contano più: True Detective, Winter’s Bone, True Blood, Mud, Joe etc.

Viziati da un’industria che però ha entrambi i piedi ben piantati nel milieu urbano di New York e Los Angeles, lo sguardo a cui ci siamo abituati è quello tipico di chi guarda con un misto di repulsione e attrazione. E così si finisce per osservare solo gli aspetti più estremi e raccapriccianti, trasformandoli in un esotico mondo fantasmatico: la religiosità, il sesso, la violenza, l’autenticità della vita fisica rurale, l’alcol e la droga, per non dire dell’ignoranza e del degrado sociale.

È quindi una boccata d’aria fresca vedere un film come Dixieland, che nonostante ambienti il proprio racconto nella provincia più profonda del Mississippi, lo fa senza alcuna traccia di esotismo e riesce piuttosto a fare di quei luoghi lo scenario per una storia universale, che parla di cose come la difficoltà di fuggire dai nostri limiti, l’amore, o quanto il nostro desiderio, a volte, sia la cosa più pericolosa con la quale abbiamo a che fare.

È importante ricordarselo: smettere di guardare il sud degli Stati Uniti come altro da sé e iniziare ad assumerne la singolarità con uno sguardo interno è possibile. Ed è tutto sommato quello che dovrebbe sempre fare il cinema: creare uno sguardo, e non compiacersi degli occhi con cui siamo abituati a guardare le cose (e che spesso riproducono anche in forma traslata differenze e diseguaglianze sociali).

Dixieland, splendida opera prima di Hank Bedford (classe 1977 e nativo del Tennessee, già collaboratore di un regista intelligente come Bennett Miller) racconta di un giovanissimo ragazzo di paese (Chris Zylka) finito in carcere per due anni per questioni di piccola criminalità, che il giorno in cui esce decide di ricominciare la propria vita in modo positivo. Si innamora della vicina di casa (Riley Keough), una ragazza semplice e determinata che però ha sul groppone le altissime spese mediche della madre, e che per questo decide di lavorare come stripper in un club sull’autostrada.

Si noti già come invece di soffermarsi sull’esotismo immaginario del sud con il suo baraccone di rodei, cowboy e scazzottate, si parli di carcere e assistenza sanitaria, ovvero due dei più grandi fattori di dumping sociale del proletariato rurale americano. Bedford ci fa vedere come anche a fronte delle migliori intenzioni la tentazione della criminalità (una vera e propria dannazione) risulti ancora troppo forte: la mobilità sociale americana è bloccata e non basta lavorare duro per riuscire a realizzare i propri sogni.

Il film è poi costruito formalmente con una continua frammentazione del continuum temporale: a volte le parole di una scena successiva vengono sovrapposte a quella precedente creando una confusione del piano della realtà con quello soggettivo (è la medesima tecnica utilizzata da Harmony Korine in Spring Breakers). Inoltre la narrazione viene spesso interrotta da piccole interviste documentarie, dove alcuni degli abitanti del paese in cui è stato girato il film raccontano le proprie storie di vita (in tutto e per tutto molto simili a quelle raccontate nella parte di finzione del film).

Il risultato è un film a tutto tondo: attento alla descrizione della dimensione sociale del Sud ma nello stesso tempo consapevole di come per raccontare il reale sia necessaria la mediazione della finzione. Siamo – per fare dei paragoni – a metà strada tra il Jeff Nichols di Shotgun Stories, la dimensione onirica e svagata di un Harmony Korine, o più semplicemente in uno dei quei videoclip hip-hop girati nei ghetti delle provincie americane dove i protagonisti guardano dritti in camera con fare aggressivo come se fossero dei tableau vivant.

Il film è ambizioso e per quanto ci riguarda completamente riuscito, ma forse risulterà poco digeribile se paragonato alla media ben più convenzionale delle pellicole indipendenti viste a Tribeca. Da notare anche la presenza nel cast di due figure storiche della musica country come Steve Earle e Faith Hill. Quest’ultima ha addirittura ha rinunciato alla serata finale degli American Country Music Awards per presenziare alla prima del film a Tribeca: cosa che ha creato un certo scandalo e un po’ di (meritata) pubblicità al film.

Accanto a Dixieland, che partecipa alla mostra concorso, è passata nella sezione “Viewpoint” (quella delle nuove “scoperte”, in gran parte opere prime) anche un’altra opera che per certi versi potrebbe esserne paragonata: Bare della brasiliana Natalia Leite (la produzione è tuttavia americana). Si tratta di un film che sta a metà tra lo sguardo descrittivo della provincia americana – questa volta si tratta del Nevada – e il coming-of-age adolescenziale di una ragazza che per la prima volta incontra un’amica con la quale vivere l’intensità di un’esperienza di vita al di là dei limiti del suo ambiente di provincia e della sua famiglia. Nella parte dell’amica c’è Paz de la Huerta che interpreta una spacciatrice, drogata, homeless ma che nello stesso tempo esercita un fascino e un’attrazione anche erotica sulla giovane e ingenua protagonista davvero irresistibile. La giovane regista riesce a seguire il rapporto d’amicizia-amore femminile tra le due con grande spontaneità ed efficacia, e il film ci è parso, nonostante la sua programmatica semplicità, come una delle opere prime più interessanti viste questa settimana.

Sono ancora poche invece le cose interessanti passate nella sezione “Spotlight”, la principale vetrina di Tribeca: tra queste Man Up, una rom-com inglese del tutto classica, ben confezionata e diretta del regista televisivo Ben Palmer, che si segnala solo per il sorprendente talento di attrice comica di Lake Bell. Potrebbe stupire che l’ennesima variante sul canovaccio “Bridget Jones” possa ancora trovare non tanto uno spazio in un festival come Tribeca (cosa che comunque, lascia un po’ esterrefatti) e persino nel mercato tout court, ma il fatto che – come si dice – la Saban Films abbia dovuto fare a gara per accaparrarsi i diritti di distribuzione del film negli Stati Uniti, lascia intendere che invece, no, film come questi uno sbocco di mercato ce l’hanno eccome!

Da segnalare la première di The Wannabe (nella foto), uno dei film più attesi del festival, diretto da Nick Sandow e prodotto da Martin Scorsese, e che vede come interpreti principali Vincent Piazza (il Charlie Luciano di Boardwalk Empire, che è anche produttore del film) e Patricia Arquette. Il film – che riprende una vicenda di cronaca dei primi anni Novanta – prende avvio durante il processo a John Gotti, boss mafioso del clan dei Gambino: una delle famose “Cinque famiglie” di Cosa Nostra che controllavano la criminalità di New York. Il processo, che vide la condanna all’ergastolo di Gotti, segnò uno dei momenti simbolici di declino della mafia italo-americana newyorchese, che poi portò alla “nuova modernizzazione” della città con Rudy Giuliani (un percorso che ebbe diverse tappe: rilancio del Lower East Side, chiusura di 42nd Street, e in generale gentrification della città con conseguente esplosione del mercato immobiliare durante “i gloriosi anni Novanta” del clintonismo).

Il film tuttavia si concentra su un personaggio marginale, tale Tommy Greco: un ragazzino mingherlino e senza alcuna esperienza criminale che però vive nel mito di John Gotti, proprio come se fosse una star del cinema. Tommy è presente come un fan a tutti i processi e cerca in tutti i modi di entrare nell’entourage di Gotti, capeggiato ora dal fratello, il quale tuttavia non ne vuole sapere di portarsi appresso uno così.

Il film ci mostra la storia d’amore tra il protagonista e Rose, una donna la cui bellezza sta svanendo ma che si prende a cuore il desiderio di questo ragazzino: un po’ facendo il ruolo della sua donna e un po’ quello di una figura para-materna, che lo consola e lo prende sotto la sua ala protettiva, quando vede che la distanza tra il desiderio di lui e il mondo reale è sempre più incolmabile. Tommy e Rose iniziano così a crearsi una vita criminale autonomamente: sempre strafatti di cocaina e poi di crack, come se fossero dei novelli Bonnie e Clyde vanno a punire quelli che per loro sono i colpevoli della disfatta di Gotti.

Il film riesce così a mettere insieme lo slancio vitale della storia d’amore tra due dropout con un incombente senso di morte. C’è la freddezza con la quale i clan reagiscono alle azioni criminali di Tommy ma c’è anche la rappresentazione di un mondo, quello degli anni Novanta, dove la mafia italiana sta andando rapidamente verso il proprio declino. The Wannabe è allora un film interessante proprio perché è attraversato da una sottile vena malinconica, e perché finisce per raccontare il canto del cigno di quel mondo – quello della mafia italoamericana - che ha attraversato l’intera storia del cinema oltre che aver fatto la fortuna dello stesso Scorsese. Con gli occhi anacronistici di un uomo immaturo e incosciente, è come se il film ci facesse vedere la mafia non tramite la sua realtà sociale, ma tramite gli occhi della sua narrativizzazione immaginaria creata dal cinema. Il cinema che guarda la mafia newyorchese come se fosse già un oggetto cinematografico.

Nell’ultima puntata passeremo in rassegna alcuni dei documentari passati a Tribeca (Cartel Land, (T)error e In Transit di Maysles), e gli ultimi film della mostra concorso e della sezione “Spotlight” (Maggie di Henrdy Hobson, con Arnold Scharzenegger e Meadowland di Reed Morano, con Olivia Wilde, Giovanni Ribisi, Elisabeth Moss e Juno Temple).