Il film in stop-motion di Kaufman e Johnson

"Anomalisa"

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Siamo tutti pupazzi assemblati in qualche modo, fatti di ricordi, rimorsi, istinti, abilità acquisite, talenti e mancanza di talenti. L’io è un puzzle, la cosiddetta persona un aggregato di varie personalità e di accidenti esistenziali. L’amore – o addirittura “l’anima gemella” – è una voce che suona diversa da tutte le altre, quella che stavamo cercando da sempre ma non lo sapevamo fino a quando l’abbiamo ascoltata per caso. L’unica che sembra vera, dolce, unica. Il problema è che non dura per sempre. Anzi.

Anomalisa racconta questo e altro, ricostruendo in stop-motion l’arrivo a Cincinnati di Micheal, guru del “customer service”, in realtà uomo frustrato, depresso, in preda a uno straniamento che lo sta facendo letteralmente a pezzi. Tutto si svolge nell’albergo Fregoli, dove l’omonima sindrome psichiatrica prende le sembianze di un incubo, un delirio. È lì che incontra Lisa, l’anomalia, la luce che si accende in fondo al tunnel, l’essere umano che potrebbe liberarlo dalla sua prigione esistenziale.

Nulla di nuovo sotto il sole (“filosoficamente” e cinematograficamente parlando). Ma Charlie Kaufman, in coppia con Duke Johnson, ci mette la sua ossessione per l’originalità a ogni costo, il gusto cervellotico di sottolineare le convenzioni (“filosofiche” e cinematografiche) per giocarci in libertà, le piccole e grandi idee di scrittura e di regia, gli spunti ora ironici e ora metafisici. E il risultato è sublime. Anche perché il consueto intellettualismo di Kaufman è attraversato da lampi di grazia e di dolcezza che lo rendono più fragile e quasi sentimentale, più umano.

Anomalisa è un film “classico”, nella struttura, nel racconto, nella messinscena, che la stop motion – i pupazzi goffi che fanno anche sesso, il trucco della voce sempre uguale, gli ambienti realistici come possono esserlo quelli di una “casa di bambola” – trasporta in un’altra dimensione, insieme concreta (sorprendentemente concreta) e astratta (magicamente astratta).

Tanti gli spunti, i dettagli geniali e i momenti da ricordare (Cindy Lauper cantata da Jennifer Jason Leigh, ad esempio). Notevole la capacità di Kaufman e Johnson di riassumere un’esperienza universale in una trovata semplice e quasi banale (la voce unica che torna ad assomigliare a tutte le altre).

C’è chi si aspettava da Kaufman la solita labirintica messinscena piena zeppa di trovate strambe e ribaltamenti di significati. Qui originale è l’idea e la messinscena è insolitamente limpida, anche nei sussulti visionari, la regia più controllata, la narrazione senza esibizionismi anti-narrativi. Molto bello.