Concorso Venezia 73

Brimstone di Martin Koolhoven

focus top image

Il cinema di genere, ok, va bene. Il western - anzi no, meglio, “il ritorno del western” - pure. Va bene, anzi benissimo, anche il bisogno sempre nuovo, sempre vitale, di classicismo, di storie da narrare, di cinema dal grande respiro. Tutto ok. Tutto perfetto e bello da ritrovare in un festival. Almeno fino a quando ti imbatti in un film come Brimstone (che il suo regista, il non troppo noto olandese Martin Koolhoven, firma addirittura con il genitivo sassone: “Martin Koolhoven’s Brimstone”, come recita il titolone in apertura).

Un film che se non fosse montato a ritroso, più epilogo, con riferimenti ai libri più noti della Bibbia (Apocalisse, Genesi, Esodo); se non volesse a tutti i costi rifare-citare-omaggiare-riprendere-reinventare La morte corre sul fiume, con tanto di predicatore folle e demoniaco, donne in fuga con fucili imbracciati in posa classica (ma manca l’allucinata canzoncina LeaningLeaning! On the everlasting arms!, sostituita da un canto di Chiesa...); se non si prendesse tremendamente sul serio mescolando varie e confuse idee sul fondamentalismo cristiano, prendendo un po’ dal cattolicesimo e un po’ dal calvinismo, farneticando sugli immigrati olandesi in quanto popolo eletto nel west di metà XIX secolo, affastellando punizioni corporali, villain che vanno a fuoco guardando negli occhi le loro prede innocenti, emissari in terra del Dio incazzato del Vecchio testamento, o al massimo sacrilega imitazione del Max Cady di Cape Fear; se non fosse, ancora, che lo scorso anno è uscito The Witch (e già questo di per sé potrebbe bastare) a parlarci di religiosità americana, pulsione al male, corruzione e colpa; se non fosse, insomma, che per tutte queste ragioni Brimstone è decisamente un pastrocchio narrativo, religioso e ideologico, un filmone con due attori di peso nemmeno così pessimi (Dakota Fanning Guy Pierce) che proprio in quanto pastrocchio impegnato viene accettato in concorso (salvo essere prontamente demolito), non sarebbe nemmeno un western così fastidioso o dannoso. Sarebbe un semplice western di fronte a cui rimanere indifferenti.

Alcuni momenti della guerra personale fra un pastore folle che dice di agire nel nome di Dio e la figlia vittima della sua follia – figlia che prima assiste alle violenze sulla madre, poi viene a sua volta violentata, poi fugge e diventata prostituta, poi finisce per essere ritrovata dal padre, salvo fuggire ancora, rifarsi una vita, avere una bambina, ma dover poi fuggire ancora, pareggiando i conti con il suo persecutore e Dio ma dimenticandosi del destino beffardo e della giustizia umana, che sostituisce nella sua assurdità quella religiosa – alcuni momenti, dicevamo, di questo folle e gigantesco casino non sarebbero nemmeno da buttare (ad esempio, tutta la parte girata nel bordello, o in generale una messinscena tutto sommato controllata e senza troppi vezzi stilistici). 

Il problema è l’insieme, la struttura avanti-indietro-e-poi-ancora-avanti-per-la-chiosa, l’incredibile mezz’ora finale che punisce il punibile e rilancia la trama come un contagio malevole e mortale. Di per sé, Brimstone poteva anche essere un western solido e magari non troppo di ritorno. Un western con una protagonista forte e coraggiosa messa di fronte a un sadico figlio di puttana come la tradizione di Hollywood ne ha creati a pacchi.

Il problema è quel genitivo sassone, “Martin Koolhoven’s..:”, l’autorialità che viene addirittura prima del titolo, quando nel western, se proprio l’autore deve esistere, al massimo deve nascondersi nei dettagli.