Fuori Concorso

Hacksaw Ridge di Mel Gibson

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Io odio la guerra. Però amo i guerrieri”. È la geniale affermazione fatta da Mel Gibson in conferenza stampa alla presentazione di Hacksaw Ridge, il suo film di guerra presentato ieri fuori concorso a Venezia. Con quella frase Gibson sintetizza in modo perfetto quella che è la posta in palio etica di questo film bellicista eppure di straordinario interesse e densità. Come è possibile infatti odiare la guerra e nello stesso tempo preservare la dimensione agonistica del conflitto? O traducendolo in termini ancora più esplicitamente etici: come è possibile distinguere il pseudo-conflitto della guerra dal coraggio, dal valore e da quell’espressione squisitamente umana di sacrificio per una collettività che è incarnata dall’esperienza militare?

Hacksaw Ridge rappresenta il primo film ideologicamente radicale che è passato fino ad ora a Venezia. E poco importa che si tratti di un film radicalmente reazionario e conservatore. Rispetto alle fascinazioni new age di Arrival, al disincanto di El Cristo Ciego e anche al postmodernismo del pur splendido El Ciudadano illustre – rispetto cioè a film che sono nel bene e nel male, e con esiti dei più diversi, in assenso con l’ideologia “media” del contemporaneo – Mel Gibson è stato l’unico cineasta capace fino ad ora di assumere fino in fondo l’estremismo di una visione parziale. La cosa non dovrebbe certo stupire: Mel Gibson è infatti un regista pienamente ideologico. Anzi, fieramente ed esplicitamente ideologico. Si potrebbe dire che ciò rende interessanti le sue opere non è tanto un’idea di cinema che emerge al fondo del suo discorso ideologico; Gibson non è interessante nonostante il suo essere conservatore; Gibson è interessante proprio perché è un estremista conservatore.

Difeso da intellettuali para-fascisti come Glenn Beck e dagli ultra-conservatori della destra americana, accusato di sessismo e di violenza domestica, trovato a delirare durante decine di arresti di guida in stato di ebbrezza, e come se non bastasse, beccato persino a proferire insulti razzisti e anti-semiti in registrazioni di conversazione privati (negli Stati Uniti, questo è vissuto come un atto di una gravità quasi imperdonabile), Gibson ha tutte le caratteristiche per rappresentare la quintessenza del personaggio moralmente inaffidabile. Ma come succede spesso nella cultura evangelica americana è proprio chi è più prossimo alla caduta soggettiva e morale che è più fervente nel porsi il problema della salvezza. È la prossimità alla dannazione che rende urgente la domanda di redenzione, così come è la prossimità al peccato che rende tanto più reale la richiesta di perdono.

Hacksaw Ridge racconta la storia di Desmond T. Doss, medaglia d’oro al valore militare durante la battaglia di Okinawa per avere salvato, praticamente da solo, 75 soldati americani rimasti feriti nel fronte nemico. La cosa che però rende questa storia singolare rispetto ad altre storie di generico valore militare è che Desmond Doss era un soldato pacifista: un obiettore di coscienza che a causa delle sue convinzioni religiose – era un Avventista del Settimo Giorno – si rifiutò nel modo più assoluto persino di toccare un arma da fuoco. Il film lo segue prima durante la sua infanzia, poi durante l’addestramento – dove in una sorta di Full Metal Jacket in versione cristiana, Doss viene deriso per la sua poca virilità e per il suo rifiuto di avere a che fare con il “fallo” americano per eccellenza: l’arma da fuoco – e infine durante la vera e propria battaglia di Okinawa (dove Gibson non si fa mancare ogni possibile dettaglio gore e splatter) per mostrarci la radicalità e le conseguenze della sua scelta.

Doss decide esplicitamente di andare in battaglia senza alcun arma: a chi gli chiede le ragioni della sua apparentemente incomprensibile scelta, lui risponde che se gli altri suoi compagni vanno in guerra per distruggere, lui proverà a rimettere le cose a posto. Per quanto gli è possibile e per quanto sarà in grado limitatamente al suo ruolo di assistente medico al fronte. Ma quello che a parole parrebbe essere un racconto edificante di pacifismo e di rifiuto della guerra – cosa per il quale molti l’hanno scambiato – si dimostra invece ben presto di ribaltarsi nel suo contrario.

Quasi all’inizio della battaglia di Okinawa i suoi compagni medici che sono appena tornati dalla prima tranche della battaglia gli intimano immediatamente di togliersi la fascia con il simbolo della croce rossa internazionale dal braccio (“è un segno di riconoscimento troppo visibile, ti farebbero fuori in pochi secondi”) e soprattutto gli sostituiscono l’elmetto con il simbolo della croce rossa con un elmetto genericamente militare. Doss insomma deve togliersi quello che è un segno di universalismo umanitario per abbracciare esplicitamente la parte alle quale lui appartiene: cioè, quella dell’esercito americano. Per Mel Gibson la guerra è un’esperienza di antagonismo radicale, e non è possibile avere una posizione genericamente umanitaria: esiste solo la parzialità del proprio campo di appartenenza.

Allo stesso modo la fede di Doss – simboleggiata da un piccola Bibbia che lui porta sempre con sé durante ogni battaglia e che legge ossessivamente in ogni pausa dal combattimento – non è un modo per “distanziarsi” dalla guerra: è anzi un modo per parteciparvi nella maniera più efficace e radicale possibile. Il problema, secondo Doss, è che i suoi compagni soldati combattono soltanto con le armi, ma dimenticano quella che è l’arma più importante: cioè la fede in Dio. È solo quando l’intero battaglione diventa consapevole dell’importanza della fede – allegorizzata da una splendida scena finale in cui il battaglione intero attende che Doss concluda le proprie preghiere per sferrare l’attacco finale al fronte nemico – che la guerra può essere vinta. Il problema della guerra, sembrerebbe dirci Gibson, non è militare, ma è etico. È solo quando una posizione etica vittoriosa viene raggiunta che è allora possibile conquistare anche la vittoria militare.

Hacksaw Ridge non è allora un film pacifista, ma non è nemmeno un’apologia della guerra fine a sé stessa. È un film che attraverso la guerra vuole porre un problema di etica e di posizione soggettiva (è lo showdown “cristico” di Doss che si lava via il sangue con una sorta di acqua battesimale ce lo mostra nella maniera più inequivocabile possibile). La qualità e il contenuto di questa posizione potranno magari non piacere a chi è allergico per ragioni politiche contingenti all’estremismo conservatore americano, ma è indubbio che Gibson riesca a costruire questo sguardo con un coinvolgimento che difficilmente può farci rimanere “neutrali” e distaccati.