Concorso Venezia 73

Spira mirabilis di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti

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In principio c’è un racconto delle origini Lakota.

Fin dal principio, l’universo è una questione di visione, immaginazione, trasformazione.

La materia si trasforma in suono, grazie alle mani sapienti di Fellix Rohner e Sabina Schärer, che sanno come piegare il metallo in modo che l’aria diventi musica.

Il marmo estratto dalla terra si trasforma in una cattedrale elevata al cielo (il Duomo di Milano), in statue, colonne, che il tempo rovina e che vanno ri-prodotte continuamente, per evocare l’eternità, l’infinito, attraverso ciò che è irrimediabilmente caduco, finito.

Una misteriosa medusa “immortale”, studiata dallo scienziato Shin Kubota, muore e rinasce continuamente, ridando vita alla sua materia inerte.

Spira Mirabilis è un’immersione lirica da vivere in apnea. Ti butti tra le immagini e i suoni, trattenendo il respiro, e rimani a guardare-ascoltare senza capire, a registrare le risonanze che suscitano (idee, emozioni, domande), cercando di dare un ordine alla complessità (che è poi ciò che fa ogni racconto delle origini e del cambiamento), trovare un senso, intuire una risposta, mentre godi della loro bellezza.

Visione, immaginazione, trasformazione. L’uomo è capace di vedere, creare, conoscere, trasformare i limiti, trascendere la materia, in qualche modo. E Spira Mirabilis elabora questa sua “grandezza” in una cine-meditazione che è essa stessa un esercizio di conoscenza e trasformazione.

Massimo D’Anolfi e Martina Parenti hanno realizzato un’opera molto ambiziosa, che sconta un problema fondamentale. Il film non fornisce una “mappa” interna al film (logica, strutturale, narrativa, emotiva, quello che volete) capace di orientare lo spettatore tra le immagini, le storie, i contesti diversi, e (non) lo fa con un’ostinazione così rigorosa che rischia di rendere l’opera troppo ermetica e cerebrale, come fosse un rebus da risolvere, più che una sinfonia visiva da “ascoltare”. L’invito, chiaramente, è quello di abbandonarsi alle risonanze, alle assonanze, alle rime interne, è quello di indicare dove guardare, piuttosto che mostrare o svelare la realtà. Ma lo spettatore rischia di naufragare, di rimanere appeso alla suggestione di questa o quella immagine, senza che ci sia un movimento, uno sviluppo del film, a parte gli ultimi intensi 15 minuti in cui ogni cosa sembra trovare il suo posto.

La mappa in realtà è nascosta nel titolo, in quella “spira mirabilis” che è «simbolo di perfezione e di infinito… una spirale logaritmica il cui raggio cresce ruotando e la cui curva si "avvolge" intorno al polo senza però raggiungerlo». Perché i frammenti di storie, suggestioni, luoghi diversi (da Wounded Knen a Berna, da Milano al Giappone) sono uniti da un andamento a spirale, dal fuori al dentro, dal basso all’alto (e viceversa), passando e ripassando attraverso immagini e suoni che sembrano girare in tondo e che in realtà ci portano verso un punto che non possiamo raggiungere.

Perché qui si parla di come l’uomo cerchi di trascendere la propria mortalità, pur essendo consapevole del fatto che non c’è modo di sfuggire ai propri limiti. Quell’immortalità anelata ma anche temuta di cui parla Borges in un suo racconto (“L’immortale”), recitato da Marina Vlady. Quell’eternità che sta dentro il racconto dei Lakota – legato al fuoco che trasforma – un popolo che celebra la fine di un uomo onorandolo perché è stato ciò che la sua natura gli aveva chiesto di essere, e che lotta per mantenere viva la propria cultura, anche se la storia vorrebbe cancellarla. Quell’infinito evocato dalle statue contro il cielo (che abbiamo già visto in L’infinita fabbrica del Duomo), o trasformato in vibrazione, in una specie di suono primordiale, che culla i neonati nelle incubatrici (li consola? li guarisce?). Quella sconfitta della morte che per noi è mito, fede, letteratura, arte, religione, desiderio fondante, archetipo fondamentale, e di cui una microscopica medusa sembra conoscere il segreto: ma in attesa di scoprire qual è, tanto vale mettersi a cantare.