Concorso

Ammore e malavita dei Manetti Bros.

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Piaccia o non piaccia se oggi il genere (non solo la commedia), in Italia, esiste ancora – anche continuando ad annaspare – lo si deve in gran parte ai Manetti Bros. Certo, per compiacersi della cosa si dovrebbe nutrire un qualche interesse in merito, magari tenerci (crederci?) un pochino. Ma soprattutto si dovrebbe pensare che il genere – in fin dei conti – affondi le radici nella contemporaneità e continui a essere un’ipotesi di mondo, pur attraverso i suoi bozzetti, le sue maschere e i suoi stereotipi.

Maschere e stereotipi di cui il cinema dei Manetti si è sempre nutrito, talvolta anche in maniera un po’ banale e spesso compiaciuta. Il merito dei due fratelli romani però, è quello di non essersi mai accontentati d’aver trovato un meccanismo narrativo innegabilmente efficace, soprattutto in televisione (dove con Coliandro hanno raggiunto il vertice della loro concezione estetica e contenutistica), motivo per il quale non sono caduti nella pigra abitudine di ripetere tale modello all’infinito. Cosa che sarebbe stata, tra l’altro, molto comoda per due film-maker il cui cinema non si distingue quasi per niente – in termini di messinscena e di costruzione enunciativa – dai lavori televisivi, compresi i videoclip. In questo senso l’aver esplorato tanto il cinema come medium, che il genere come linguaggio li ha portati a sviluppare una sensibilità nuova e ad abbracciare il genere più di tutti lontano anni luce dall’immaginario pulp-poliziottesco-horror venato di toni comici e citazionismo che hanno sempre portato sullo schermo. Ovvero il musical. Se già con Song’e Napule s’era fatto avanti il sospetto che finalmente ci fosse qualcosa che i Manetti sapessero fare bene anche al cinema, con quest’ultimo Ammore e malavita, è arrivata la conferma.

Ancora Napoli quindi, e ancora una vicenda che coniuga un plot da crime-story al musical e alla commedia. Solo che questa volta l’universo musicale di riferimento non è quello dei neomelodici ma quello della sceneggiata napoletana e quindi di tutto un genere cinematografico che, proprio come il poliziesco, in Italia ha raggiunto l’apice negli anni Settanta. La storia – pienamente in linea con lo stereotipo della sceneggiata – è quella di due giovani innamorati, Fatima e Ciro (Serena Rossi e Giampaolo Morelli) che si rincontrano alcuni anni dopo la loro separazione causata dal fatto che Ciro si era unito alla Camorra per vendicare la morte del padre. Ora che sono di nuovo insieme però il loro amore è minacciato dal boss Vincenzo Scozzalone (Carlo Buccirosso), il quale incarica Ciro – sua guardia del corpo – di far fuori Fatima, inconsapevole testimone dei loschi traffici che Don Vincenzo ordisce con la connivenza della moglie Maria (Claudia Gerini).

La scoperta del musical da parte dei Manetti è una rivelazione quasi inaspettata. Non solo tengono insieme il film punteggiando la loro “sceneggiata” di pennellate comiche perfettamente integrate nella trama, ma riescono nello stesso tempo a restare dentro il genere, senza smarrirsi e limitando al massimo l’autocompiacimento che spesso li caratterizza. I brani musicali esplorano generi e stili differenti, sono funzionali alla trama e anzi, raggiungono la perfezione proprio quando si sostituiscono all’azione. Raccontando non solo gli stati d’animo e i sentimenti dei personaggi, ma anche i risvolti narrativi. Come il flashback della storia d’amore tra i protagonisti sulle note di What a Feeling (Flashdance) o il racconto dell’omicidio di Gennaro da parte di Ciro quando Fatima e lo stesso Gennaro duettano in un brano che sembra già destinato a diventare la hit della colonna sonora: Bang Bang. Ma è tutto il film a trattare con sensibilità il musical, sin dalla scelta degli interpreti – oltre a Serena Rossi (bravissima) ci sono anche il cantautore Franco Ricciardi, la voce degli Almamegretta Raiz e il veterano della sceneggiata Pino Mauro – fino agli arrangiamenti di Pivio e Aldo De Scalzi che mescolano l’R&B, il pop-rock e la musica tradizionale napoletana. E se in fondo l’elemento che più difetta sono le coreografie è anche vero che nella sceneggiata classica (a differenza del musical) queste ultime non hanno mai avuto un ruolo determinante.

La consueta intertestualità con cui i Manetti costruiscono le opere e la cinefilia dalla quale attingono a piene mani da sempre, inoltre, non vanno mai oltre il loro ruolo parodico e non sovrastano l’andamento del film. Citazioni più pop del solito – meno b-movies italiani e più opere americane come James Bond, orientali come Bullet in the Head e nazionali: Gomorra e persino un velato riferimento a Sergio Leone – rendono Ammore e Malavita un’opera senz’altro più matura rispetto a tutto il cinema precedente dei Manetti, ma anche rispetto al loro lavoro tout court. Ovvero un film fruibile a un pubblico più vasto, ma capace di difendere il genere anche di fronte alle ultime tendenze del cinema italiano (e non solo). Del resto chi ritiene La la Land un grande film dei (e sui) nostri tempi dovrebbe fare lo stesso – mutatis mutandis – con Ammore e malavita. In caso contrario il genere, almeno qui da noi, continuerà a morire ogni giorno un po’ di più.